Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 22

I musei svizzeri seguono con particolare interesse l'attuale politica culturale: Da un lato sono in attesa del Messaggio sulla cultura 2025-2028, dall'altro sono in preparazione due mozioni sul tema della provenienza. Per l'occasione, abbiamo parlato con Carine Bachmann, direttrice dell'Ufficio federale della cultura (UFC). Come di consueto, il numero autunnale contiene un articolo sul congresso annuale di quest'anno e la cronaca. La serie fotografica vi porta nel mondo dei minerali e diamo uno sguardo oltre confine, a Rotterdam, dove il Museo Boijmans Van Beuningen ha aperto quasi due anni fa il primo magazzino espositivo pubblico al mondo.

Rivista svizzera dei musei 22

A proposito

La Rivista svizzera de imusei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Via i paraocchi!

«Tabù? Soggetti sensibili al museo» era il titolo del Convegno annuale di AMS e ICOM Svizzera. La messa in campo di argomenti come il razzismo, il colonialismo, l’identità sessuale, la dignità o la religione è spesso percepita come una provocazione. Qual è il comportamento dei musei di fronte a temi e oggetti sensibili? Come riescono a riflettere sulla propria attività da una prospettiva tuale e ad accompagnare il dibattito sociale offrendo nuovi impulsi? Interventi e confronti stimolanti hanno messo in luce una sorprendente ricchezza di idee.

«C’è bisogno di coraggio, tempo e denaro per gestire i conflitti»: questa la conclusione dei partecipanti alla prima tavola rotonda del Convegno annuale 2023. Non c’è dubbio, infatti, che da mere istituzioni di raccolta, ricerca e mediazione, i musei stiano diventando sempre più dei luoghi deputati al dibattito sociale. Si tratta di una trasformazione del tutto auspicabile: il Piano strategico 2022–2028 di ICOM International incoraggia i musei ad affrontare i mutamenti sociali, non limitandosi a rifletterli, ma agendo da catalizzatori del cambiamento. Tuttavia, i processi di trasformazione sono scomodi poiché implicano il confronto con argomenti finora ignorati, non senza ragione, e provocano talvolta reazioni violente.

Il passato coloniale di molte società del cosiddetto Nord globale – e dei loro musei – è stato finora un argomento tabù. Diversi interventi si sono concentrati sulle strategie impiegate dalle istituzioni per esaminare le proprie collezioni da questa prospettiva, cercando di chiarire le origini dei singoli reperti, completando i database, riflettendo sulla propria storia e tematizzando nell’allestimento delle mostre le conoscenze maturate. In un numero sempre maggiore di musei, la questione della possibile restituzione delle collezioni porta a considerazioni di ordine legale, etico e pragmatico.

Gli interventi e i dibattiti hanno messo in luce il fatto che gli argomenti tabù si trovano in ogni ambito della vita: dalla sessualità nelle sue molteplici manifestazioni alla morte e alla questione legata alla legittimità o meno di esporre resti umani. Come si comportano i musei di fronte a questi contenuti? In che modo riescono a porsi come «zona di contatto, anziché terreno di scontro», come ha detto un relatore? Sono pronti a interrogarsi in maniera critica sulle proprie attività dalla prospettiva delle nuove questioni sociali? Sono disposti a trattare temi delicati in modo dialettico e produttivo, integrando nelle proprie pratiche le reazioni del pubblico? E ancora: quali nuove competenze sono necessarie per consentire, ma anche per promuovere un dibattito sociopolitico aperto e inclusivo all’interno del museo?

Non sono state trovate risposte valide per tutte le domande, il che non sorprende vista la vastità tematica dei progetti espositivi proposti: hockey su ghiaccio e mucche, maschere e cappotti di piume, tesori d’arte e attrezzi agricoli, mummie e animali impagliati. Anche le esperienze legate alla ricezione sono state molto diverse: mentre il Museo di storia naturale di Berna ha ottenuto un riconoscimento e fatto segnare un numero record di visitatori con la mostra «Queer», molte istituzioni hanno difficoltà a ottenere finanziamenti per l’organizzazione di mostre dedicate ad argomenti sensibili.

Autrice: Judit Solt

I tabù non scompaiono

L’insieme delle regole non scritte che orientano il comportamento e il linguaggio di una società è soggetto allo spirito del tempo. I musei dovranno pertanto continuare a confrontarsi con i tabù anche in futuro.

A scadenze regolari, musei e mostre finiscono sulle prime pagine dei giornali per aver trattato temi considerati «tabù». Si parla, in questi casi, di «rottura dei tabù» o di «detabuizzazione »: succede quando gli artisti, i musei o le istituzioni culturali decidono di non attenersi alle convenzioni sociali tacitamente accettate, quando cioè si sottraggono a quelle regole non scritte che ci hanno sempre indotto a dire «non si fa così, non è corretto, non si dice così». Di norma, si tratta di contenuti (temi, oggetti, punti di vista) che non erano ancora stati affrontati nel mondo dell’arte, perché un tacito accordo lo vietava. La rottura dei tabù è deliberatamente provocata.

Quest’estate, il museo della letteratura Strauhof di Zurigo ha documentato come ciò possa funzionare presentando i disegni della fumettista svedese Liv Strömquist, che nel 2017 aveva suscitato scandalo a Stoccolma. I manifesti, esposti nelle stazioni della metropolitana della capitale svedese, mostravano alcune pattinatrici che indossavano della biancheria intima macchiata di sangue. L’installazione di Liv Strömquist, intitolata «The Night Garden», aveva provocato la reazione di alcuni politici che avevano chiesto di vietare questa «arte mestruale» negli spazi pubblici. L’artista aveva difeso il suo operato spiegando che intendeva rompere deliberatamente il «tabù delle mestruazioni»: il sangue mestruale esiste, aveva detto, e non dovrebbe suscitare alcuna vergogna né imbarazzo. Le aziende di trasporto cittadine avevano sostenuto Liv Strömquist e i manifesti sono rimasti affissi nelle stazioni della metropolitana per due anni.

In cima alla lista degli argomenti tabù troviamo la sessualità e la morte: pochi altri temi, al di là di questi, toccano infatti in modo tanto profondo i concetti morali e i costumi di una società. I tabù però non esistono solo nel mondo dell’arte, ovviamente, ma anche nella vita sociale di tutti i giorni. In Svizzera, ad esempio, è tabù porre ad amici e colleghi domande sul loro stipendio o il loro conto in banca. Fare picnic in chiesa è tabù tanto quanto praticare jogging in cimitero. Più in generale, la società è intrisa di tabù quando si affrontano questioni come la vecchiaia, la malattia o la disabilità. Ciò non va visto in modo necessariamente negativo, dato che la maggior parte dei tabù implica al contempo il rispetto della persona e della sfera privata altrui.

Tabù come «timore sacro»

Da dove viene la parola «tabù»? Il termine ha origine in Polinesia, ha spiegato Bruno Brulon Soares dell’Università di St Andrews durante la sua conferenza, intitolata «Tabù? Argomenti sensibili nel museo», tenutasi lo scorso agosto a Bellinzona in occasione del congresso annuale dell’Associazione dei Musei Svizzeri. Si ritiene che il vocabolo sia stato portato in Europa alla fine del XVIII secolo dall’esploratore e navigatore inglese James Cook. Il termine, utilizzato sia come aggettivo («qualcosa è tabù») sia come sostantivo («qualcosa è un tabù»), indica uno stato di inviolabilità, di sacralità, di intoccabilità. Le «cose tabù» – secondo le credenze religiose dei polinesiani – dovevano essere rigorosamente evitate perché dotate di pericolosi poteri. Un tabù può quindi essere definito come una cosa che suscita «timore sacro». Il tabù è una legge non scritta, probabilmente più antica di qualsiasi religione.

Se l’origine e l’etimologia della parola sono chiare, meno facile è darne una definizione. Sigmund Freud affrontò la questione già nel 1913 nel saggio «Totem e tabù», che tratta di uno dei tabù più antichi, il divieto di incesto. All’epoca Freud osservava che «le restrizioni del tabù sono qualcosa di diverso dai divieti religiosi o morali. Non sono ricondotte al comandamento di un Dio, ma in senso proprio si vietano da sé.»

Violazione dei valori

Oggi possiamo dire che i tabù rappresentano tradizionalmente delle violazioni di valori e di norme sociali. Ogni gruppo culturale ha le proprie regole di convivenza sociale. Un comportamento accettato all’interno di un gruppo può essere percepito, in un altro gruppo, come una violazione delle regole. Se le norme comportamentali sono regolate in modo ambiguo, ciò può significare una maggiore libertà d’azione, ma può anche essere il luogo in cui nascono nuovi tabù. L’elenco dei tabù definisce insomma la sensibilità, la libertà e le norme di una società. Quanti più tabù caratterizzano una società, tanto più rigide e connotate moralmente sono le sue regole di convivenza.

In società sempre più secolarizzate come quella svizzera, caratterizzate da un’influenza sempre minore dei concetti morali ecclesiastici, si può prevedere che i tabù diminuiranno. Temi o aspetti che un tempo erano considerati tabù, come l’omosessualità o la nudità nei film, sono ormai infatti largamente accettati: nessuno se ne scandalizza. Gli anni Settanta, invece, erano ancora fortemente caratterizzati da una moltitudine di tabù sociali e visivi. Col tempo, alcuni di essi sono andati trasformandosi quasi nel loro contrario: infatti, se l’omosessualità è stata a lungo un tabù, oggi è l’omofobia ad essere considerata un problema.

I tabù però non sono scomparsi, e questo perché esistono molti ambiti che continuano a toccare zone intime e sensibili dell’essere umano. L’artista friburghese Anne Vonlanthen ha creato dei teschi di animali utilizzando oggetti appartenuti a persone decedute e calchi in gesso di teste di persone viventi. Ha realizzato, ad esempio, un teschio con le siringhe e i tubi per infusione che sono stati usati per curare il marito, successivamente morto di malattia. È indubbio che un’opera simile solleva degli interrogativi. L’artista si chiedeva anche che cosa fanno le persone in lutto con gli oggetti dei defunti. «La morte è ancora un grande tabù nella nostra società», afferma Anne Vonlanthen. E infatti si continua a discutere se sia il caso di esporre in mostra dei cadaveri imbalsamati…

Non tutti i tabù sono un male

Nonostante la liberalizzazione e la permissività dei costumi, il tema della sessualità continua a suscitare scandalo perché vengono toccati dei tabù. Martin Bürgin, storico e studioso delle religioni, responsabile di una serie di film al Luststreifen Film Festival di Basilea, ha affermato: «Non credo che una volta infranto un tabù questo sparisca per sempre». E comunque, se alcuni tabù scompaiono, altri emergeranno al loro posto. La società è soggetta a una costante mutazione di valori. Per questo motivo i musei continueranno anche in futuro ad osservare e a mettere in discussione i tabù esistenti e a proporli come tema di riflessione. Come detto, è difficile stabilire se sia lecito mostrare in pubblico resti umani o teschi mummificati. Tanjev Schultz, laureato in scienze politiche e della comunicazione, professore presso il seminario di giornalismo dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, ha scritto sulla «Süddeutsche Zeitung»: «Anche nelle società aperte ci sono dei tabù, ma non tutti i tabù sono un male».

Autore: Gerhard Lob

«Vogliamo rafforzare il settore culturale»

Conversazione con Carine Bachmann, direttrice dell'Ufficio Federale della Cultura. Quali sono le priorità del Messaggio sulla cultura 2024-2028? Che cos'è la strategia nazionale per il patrimonio culturale e qual è il rapporto tra la direttrice dell'UFC e il panorama museale svizzero? Andrea Kauer Loens, vicepresidente dell'AMS, e Tobia Bezzola, presidente di ICOM Svizzera, hanno incontrato Carine Bachmann a Berna nel luglio 2023, circa un anno e mezzo dopo il suo insediamento alla guida dell'UFC. La conversazione è stata moderata e trascritta da Katharina Flieger.

Katharina Flieger: Signora Bachmann, dopo gli studi di psicologia sociale, cinematografia e diritto internazionale, il percorso che l'ha portata al suo attuale lavoro l'ha condotta attraverso le più diverse esperienze professionali. In che misura tutto questo ha modificato la sua visione del panorama museale svizzero?

Carine Bachmann: Una delle tematiche che ha sempre suscitato il mio interesse è l'interazione tra individuo e società, il modo in cui il discorso sociale plasma l'identità individuale. Il primo settore in cui ho lavorato è stato il cinema. In particolare, collaborando a un festival di cinematografia sperimentale, mi sono occupata tra l'altro di come si ottiene l'effetto di realtà nei documentari.

In seguito, ho lavorato per circa dieci anni nell'ambito della cooperazione allo sviluppo e della prevenzione dei conflitti nel Caucaso e in Asia centrale. Era il momento del crollo dell'Unione Sovietica e dell'emergere di nuovi Stati nazionali, quindi la mia attenzione si è concentrata sulle politiche linguistiche e delle minoranze. In quel tipo di contesto, la domanda fondamentale era: quali politiche può attuare uno Stato per rafforzare il multiculturalismo? E come possiamo fare in modo che la diversità culturale sia un vettore di pacificazione sociale e non di guerre e conflitti? Questo mi preoccupa ancora oggi; infatti, all'UFC lavoriamo proprio su questioni di questo tipo.

Nei dodici anni successivi ho lavorato per la città di Ginevra. In qualità di direttrice del Dipartimento cultura e trasformazione digitale avevo un concreto legame con le istituzioni museali. Come responsabile dei cinque musei municipali, ho avviato un processo partecipativo per consolidare e valorizzare il panorama museale della città. Questo processo ha portato alla creazione della Conferenza dei Musei di Ginevra, con il mandato di elaborare una strategia per la politica museale ginevrina e azioni congiunte. Il mio rapporto con il paesaggio museale, quindi, è passato da una visione teorica a un confronto concreto con aspetti quali le statistiche dei visitatori, la partecipazione culturale o la misura in cui un museo possa provocare o divertire il pubblico – un lavoro incredibilmente appassionante.

KF: Quindi lei è passata da una visione teorica, anche filosofica, del museo a un impegno pratico con le istituzioni cittadine. All'UFC, invece, il contesto è diverso, più distante dalle questioni concrete. Ci descrive brevemente il rapporto tra i musei e l'UFC?

CB: Il lavoro dell'UFC consiste da un lato nel conservare le collezioni federali e renderle oggetto di una comunicazione efficace. Dall'altro, la nostra missione è sostenere finanziariamente i musei di importanza nazionale e le reti del patrimonio culturale. L'UFC è inoltre incaricato di applicare la Legge federale sulla circolazione internazionale dei beni culturali. Questa legge attua la Convenzione UNESCO del 1970: regola l'importazione di beni culturali in Svizzera, la loro esportazione e il rimpatrio dalla Svizzera oltre a contenere le misure contro il trasferimento illegale di proprietà. In questo modo, la Confederazione intende contribuire alla conservazione del patrimonio culturale dell'umanità e prevenire il furto, il saccheggio, l'importazione e l'esportazione illegale di beni culturali. La nostra attività si svolge nell'ambito intergovernativo, sia per quanto riguarda la conclusione di accordi bilaterali sul trasferimento di beni culturali, sia per la restituzione di beni culturali confiscati in Svizzera a seguito di procedimenti penali.

Tobia Bezzola: Come avviene concretamente la comunicazione a diversi livelli tra governo federale, cantoni e comuni?

CB: Dal 2011 abbiamo adottato un formato istituzionalizzato per questo: il dialogo culturale nazionale. In pratica, l'associazione dei comuni e quella delle città, i cantoni e il governo federale si incontrano regolarmente a livello tecnico e politico non per prendere decisioni vincolanti, ma per discutere, scambiarsi buone pratiche e formulare raccomandazioni. Ad esempio, un gruppo di lavoro è attualmente impegnato nella formulazione di una strategia nazionale globale per la conservazione, lo sviluppo e la comunicazione del nostro patrimonio culturale. Questo lavoro è stato avviato in seguito a una mozione della WBK (Commissione della scienza, dell'educazione e della cultura) del Consiglio degli Stati. Si tratta di un compito complesso e difficile, ma anche estremamente interessante. Mi sembra sensato che ogni generazione si chieda che tipo di oggetti dovremmo e vorremmo collezionare in Svizzera, e quali sono le sfide da affrontare nella gestione del nostro patrimonio culturale. La strategia – la cui attuazione richiederà un ampio sostegno da parte degli interessati e solleverà problemi di risorse – dovrebbe essere pronta nel 2024.

Andrea Kauer: Questa strategia nazionale, cui anche il messaggio sulla cultura fa riferimento più volte, è molto attesa negli ambienti museali. A essa si aggiungono le mozioni per la creazione di una piattaforma utile alla ricerca sulla provenienza (mozione WBK-S) e di una commissione che si occupi di questioni relative alla provenienza e alla restituzione (mozione Pult). Ci sono novità sullo stato di queste proposte di legge, così importanti per il mondo museale?

CB: In questo momento stiamo lavorando alla creazione della piattaforma per la ricerca sulla provenienza. Anzitutto dobbiamo creare la base giuridica necessaria attraverso un'integrazione alla legge sulla circolazione dei beni culturali, che ci consentirà di sostenere il progetto. L'idea non è che la Confederazione gestisca direttamente questa piattaforma, ma di coinvolgere dei soggetti esterni.

La seconda mozione incarica il Consiglio federale di creare una commissione di esperti in materia di arte rubata dai nazisti e di chiarire se debbano essere presi in considerazione anche oggetti culturali provenienti da altri contesti, come quelli coloniali. Anche in questo caso siamo sulla buona strada e speriamo che la commissione possa iniziare a lavorare al più presto. La maggior parte dei Paesi limitrofi dispone già di commissioni analoghe con cui siamo in ottimi rapporti, tanto che ci siamo confrontati coi rispettivi responsabili sui vantaggi e svantaggi dei punti più importanti. Una cosa è chiara: la commissione avrà il compito di formulare raccomandazioni non vincolanti, che tuttavia non riguarderanno solo l'eventuale restituzione. La restituzione è una delle tante opzioni nella ricerca di soluzioni giuste ed eque. Esiste anche la possibilità di prestiti – temporanei o permanenti – o della produzione di repliche degli oggetti, che verranno poi esposte nel Paese d'origine e in Svizzera. Inoltre, si raccomanda ai musei di documentare meglio la provenienza del bene culturale di turno, rendendola accessibile al pubblico.

Proprio in questo momento siamo al lavoro per chiarire le questioni ancora aperte. Una delle domande è: questa commissione dovrebbe occuparsi anche degli oggetti culturali provenienti da contesti coloniali? (Come sapete, si tratta di contesti diversi). In caso affermativo, cosa comporterebbe questo per la composizione e il funzionamento della commissione? La domanda successiva riguarda i requisiti di ingresso: la ricerca sulla provenienza deve essere già stata effettuata? Deve esserci già stato un tentativo di conciliazione tra il museo, la proprietà e il richiedente? Credo che tutti siano consapevoli che questa commissione è uno strumento utile a risolvere quei casi che non possono essere composti in altro modo. Quando la soluzione non si trova, credo sia opportuno che una commissione di esperti, di cui non fanno parte né i proprietari né i richiedenti, possa indagare sulla controversia e formulare un parere.

AK: Dal punto di vista dei musei e dell'AMS, è estremamente positivo che il governo federale stia portando avanti la questione della ricerca sulla provenienza a diversi livelli. Mentre il settore delle opere saccheggiate dai nazisti interessa soprattutto i musei d'arte, il campo si allarga quando si considerano gli oggetti dell'archeologia classica o quelli con un passato coloniale, ad esempio. Si tratta di problemi che riguardano numerosi piccoli musei e c'è ancora molto lavoro da fare. Questo ci porta alla prossima sfera d'azione, ossia le condizioni di lavoro nel settore culturale e il miglioramento della sicurezza sociale. I piccoli musei di cui sopra, che sono già mal finanziati e gestiscono la loro vita quotidiana solo grazie al lavoro dei volontari e a una grande dedizione individuale, devono prima di tutto essere messi in condizione di condurre ricerche sulla provenienza.

CB: Sì, questo è un tema che mi sta molto a cuore. La ricerca sulla provenienza rientra tra i compiti dei musei e negli ultimi tempi molte grandi istituzioni museali svizzere hanno professionalizzato e ampliato questo settore. Alcuni musei di piccole e medie dimensioni, tuttavia, che non hanno le risorse finanziarie e umane per affrontare questo importante compito, avranno bisogno di un sostegno adeguato alle loro esigenze nei prossimi anni. La collaborazione con l'AMS e altre associazioni è fondamentale per lo sviluppo delle basi e degli strumenti necessari.

TB: Le associazioni possono sostenere questo processo occupandosi della formazione, non in senso accademico, ma come formazione continua. C'è bisogno di agire in questo senso.

CB: Sono del tutto d'accordo. Per il periodo che va dal 2016 al 2024, la ricerca sulla provenienza ha ricevuto finanziamenti per 5,7 milioni di franchi. Nel nuovo Messaggio sulla cultura abbiamo stanziato più fondi che possono essere impiegati in modo relativamente flessibile.

La ricerca sulla provenienza è un arricchimento per i musei: contribuisce a mantenere vivo il patrimonio culturale attraverso una discussione rilevante per il presente. Essa consente di raccontare al pubblico la storia di un bene culturale da diverse prospettive. Nel farlo, è importante anche confrontarsi con un passato storicamente pesante.

TB: Se dovesse spiegare brevemente a qualcuno perché è necessario un nuovo messaggio sulla cultura e cosa c'è di nuovo in esso, che cosa direbbe?

CB: L'obiettivo fondamentale è che in Svizzera la cultura venga riconosciuta come un valore a sé stante e il settore culturale venga rafforzato. La cultura è ancora vista da molti come un «affare secondario», qualcosa che è «carino avere»: finché le cose vanno bene, ce la si può permettere, altrimenti no. Invece noi vogliamo e dobbiamo rafforzare il settore culturale. Durante la pandemia, la consapevolezza dell'importanza sociale della cultura è aumentata; questa è un'opportunità. Allo stesso tempo, la pandemia ha evidenziato le debolezze sistemiche del settore: le precarie condizioni di lavoro degli operatori culturali, ad esempio, non sono una novità, ma dopo l'emergenza Covid sono state documentate nero su bianco. Anche alcune tendenze, come il consumo di contenuti digitali, hanno subito un'accelerazione esponenziale a causa della pandemia. Per questo motivo, al momento di redigere il Messaggio sulla cultura, abbiamo deciso di fare il punto sulle sfide davanti alle quali ci troviamo in Svizzera, coinvolgendo le organizzazioni culturali e le controparti statali. Si tratta di un nuovo modo di procedere. In seguito a una serie di indagini conoscitive, e nel quadro di una prospettiva nazionale, sono stati definiti sei campi d'azione. Anche questa è una novità.

L'ambizione del Messaggio sulla cultura 2025-2028 è di affrontare le problematiche individuate operando in modo mirato e pragmatico, naturalmente nell'ottica del nostro sistema federalista. Per la Confederazione, ciò significa agire principalmente in modo sussidiario e concentrarsi su progetti che interessano l'intera Svizzera. Per noi, politica culturale e politica sociale coincidono. Siamo un Paese multiculturale e multilingue, con una tradizione profondamente radicata di partecipazione politica e sociale. La nostra risorsa più importante sono le persone... Per questo la politica culturale della Confederazione continua a perseguire tre obiettivi che hanno un impatto a lungo termine: promuovere la coesione sociale, la partecipazione culturale e la creazione e l'innovazione.

KF: Signor Bezzola e signora Kauer, come valutate dal vostro punto di vista l'effetto di questo Messaggio sulle altre entità investite del potere decisionale e sui diversi livelli della politica culturale?

TB: L'importanza, esplicitamente sottolineata, della ricerca sulla provenienza è molto importante. Spesso, infatti, i proprietari delle opere non sono i musei, ma i cantoni o le città. In futuro, nessun consiglio comunale o governo cantonale potrà dire che la questione della provenienza non li riguarda, che non vogliono discuterne. Anche se non è una legge costituzionale, a livello comunale e cantonale si prenderà in considerazione il parere del governo federale al riguardo.

AK: Inoltre, il Messaggio sulla cultura è un segnale per le fondazioni e non da ultimo per il posizionamento delle istituzioni, poiché stabilisce le priorità e indica un orientamento, il che si ripercuote a tutti i livelli.

CB: La maggior parte delle problematiche riguarda tutti e tre i livelli dello Stato. La cooperazione e, ove opportuno, il coordinamento delle misure costituiscono il prerequisito di una politica culturale coerente ed efficiente nel nostro Paese. Dobbiamo unire le forze!

Le nostre risorse finanziarie sono limitate. Un punto delicato è quello del sostegno alle reti. La tipologia delle realtà finanziate è relativamente eterogenea e i contributi di cui beneficiano sono assai diversi. Inoltre, in questo settore abbiamo nuovi compiti, ma non maggiori risorse. Dobbiamo rivedere concettualmente tutto questo ambito sulla base della strategia nazionale per il patrimonio culturale. L'idea non è quella di tagliare i fondi: tutte le organizzazioni, infatti, svolgono un lavoro prezioso. Idealmente, non vogliamo dividere la stessa torta con più parti, ma ingrandire la torta. Nei prossimi anni, la riprogettazione del sostegno alle reti di terzi sarà certamente un tema importante. Affronteremo con la massima attenzione i prossimi dibattiti in proposito e coinvolgeremo le parti interessate.

TB: A volte, non vorrebbe che il governo avesse una rete di musei federali simile a quelle della Francia o della Spagna dove vige un coordinamento globale delle politiche? La mancanza di reti ampie e nazionali comporta un deficit di indirizzo per la politica culturale nel suo complesso?

CB: Per me la questione non si pone. Il federalismo e la distribuzione delle competenze che ne consegue hanno molti vantaggi, anche in termini di politica culturale. In Svizzera, la cultura è una questione che riguarda tutti e non solo un'élite. La domanda è: come possiamo sostenere il settore culturale con la nostra ripartizione federalista delle competenze e quale può e deve essere il contributo della Confederazione nell'interesse di tutta la Svizzera? Questo non ha nulla a che fare con il centralismo. Vedo nell'Ufficio federale della cultura un ente che facilita, coordina e talvolta prende l'iniziativa. Prendiamo la trasformazione digitale, ad esempio. Non è particolarmente efficiente che ogni museo costruisca il proprio archivio digitale a lungo termine. Probabilmente avrebbe più senso sedersi a un tavolo e riflettere su come affrontare insieme un'esigenza comune, che è costosa e richiede molte risorse. A mio avviso, facilitare e coordinare tali discussioni può rientrare nei mandati della Federazione.

Autrice: Katharina Flieger

Una «sala macchine» trasparente

A Rotterdam, il Museo Boijmans Van Beuningen ha inaugurato il primo deposito di opere d'arte aperto al pubblico, che offre ai visitatori scenari spettacolari.

Chi entra nel Depot del Museo Boijmans Van Beuningen e solleva lo sguardo verso l'alto ha la netta impressione di guardare il futuro. Ripide scale di vetro s'incrociano all'infinito creando un ambiente che è un misto tra una stampa di Piranesi e il castello di Hogwarts. Ascensori trasparenti di varie dimensioni scorrono silenziosamente verso l'alto conducendo a espositori in vetro con oggetti che sembrano fluttuare nell'aria: sculture lignee risalenti al Medioevo, un abito da cocktail a forma di fiore in rosa e rosso acceso, guanti di un giallo brillante simili a grosse zampe. Anche nei sei livelli di cui si compone la struttura sembra dominare la trasparenza: grandi lastre di vetro lasciano intravedere numerosi interni con pareti di cemento prevalentemente non intonacate. Qui, depositi e laboratori di restauro conservano tesori di ogni genere: ceramiche provenienti dall'Asia; dipinti di Bruegel, Rembrandt, Picasso, Beckmann e Van Gogh; un'opera tessile a pois rossi di Yayoi Kusama; una scultura giovanile di Christo e Jeanne-Claude; sedie Thonet; una bicicletta da corsa in alluminio. Ci si sente sopraffatti, quasi travolti da una felicità assoluta, da un'ebbrezza visiva: in breve, dall'esperienza dell'arte.

«Qui ciascuno diventa un curatore e racconta la propria storia», dice Sjarel Ex, direttore del Museo Boijmans Van Beuningen insieme a Ina Klaassen e responsabile di questo nuovo spazio, che in realtà ha ancora bisogno di un nome. «Depot» è un termine troppo sobrio per questa tazza da tè in argento lucido, alta quasi 40 metri, atterrata nel Museumpark di Rotterdam proprio accanto all'edificio in mattoni del Museo vero e proprio. L'architettura, soprattutto quella visibile all'esterno, è spettacolare. Infatti, l'edificio è sormontato da un tetto piatto su cui cresce un piccolo bosco di betulle ed è rivestito da 1664 lastre di vetro curvo che rispecchiano, in maniera più o meno distorta, ciò che hanno intorno. Questo non solo fa scattare un'inevitabile (e intergenerazionale) voglia di selfie, ma dimostra anche quanto la città sia capace di diventare un palcoscenico in cui essa stessa assume il ruolo di allegra protagonista. Alla faccia degli uccelli del malaugurio che minacciavano sventure durante la pandemia. Ma ciò che è ancora più scenografico dell'architettura, ideata dallo studio MVRDV di Rotterdam, è la vita che si svolge all'interno di questo edificio. Si tratta infatti del primo deposito d'arte completamente pubblico al mondo. Su una superficie di 15.000 metri quadrati, tutti gli oltre 151.000 oggetti della collezione Boijmans Van Beuningen saranno accessibili a tutti. Nessuno escluso.

Qui i visitatori hanno la possibilità di farsi un'idea di come funzionano i grandi musei del mondo, con i loro depositi più o meno sicuri ed equilibrati dal punto di vista climatico, i laboratori di restauro, gli spazi per la cura, la pulizia e l'imballaggio delle opere d'arte. Questi luoghi – un tempo relegati nelle cantine e oggi, viste le dimensioni sempre maggiori delle collezioni, sparsi in strutture adiacenti ai musei – sono di solito inaccessibili, cosa che accadeva anche al Boijmans Van Beuningen. La collezione era sparsa tra diversi magazzini e il seminterrato dell'edificio di mattoni, il che ha quasi portato a una catastrofe nel 2013, quando durante un'alluvione l'acqua si è fermata pochi centimetri sotto le opere d'arte. L'esigenza di un nuovo deposito è sorta comprensibilmente in quell'occasione, ma la costruzione di questa sorta di «sala macchine» trasparente e accessibile a tutti, la prima mai realizzata da un museo – che apre la vista sulle sue parti più interne e non da ultimo sul suo personale – è dovuta anche a un certo coraggio caratteristico degli olandesi. O almeno questa è l'impressione che se ne ricava. Non è un caso che in questa nazione di ciclisti, pochissimi indossino il casco, compresi quelli che viaggiano in Vespa.

Una nuova vita per gli oggetti museali

«La sicurezza è importante, ma non si raccolgono opere d'arte per metterle al sicuro», dice il direttore Sjarel Ex: «Collezioniamo dipinti, sculture e opere di design per dar loro una nuova vita». Questa nuova vita è ancora qualcosa di insolito anche per il personale, istintivamente portato ad allontanare il visitatore quando si avvicina troppo a uno dei tesori della collezione – un Van Gogh, mettiamo. Tuttavia, con la sua affermazione Ex tocca un punto dolente per molti musei: «Se mettiamo tutto in una stanza buia dove nessuno può entrare, le opere verranno dimenticate». Grazie al loro sistema informatico, anche al Boijmans si erano accorti che vari segmenti della collezione rimanevano ignorati dai più. E cosa dire delle decine di migliaia di oggetti imballati in casse di legno, scatole di plastica o di cartone, riposti in scaffali e armadi altissimi o scomparsi nel sistema di coordinate dietro un numero a sei cifre. Come il Pandora-Box mit Kopf di Ursula Schultze-Bluhm, ad esempio: un armadio dipinto a colori vivaci e ornato da ogni sorta di oggetti, con il busto di un manichino nudo, che ha la testa decorata da piume di pavone. L'assemblaggio realizzato nel 1973 dall'artista tedesca dell'Art Brut è stata una «meravigliosa scoperta», dice con soddisfazione il curatore del Dipartimento per le installazioni e gli oggetti di grandi dimensioni, che lo ha «trovato» mentre stava sistemando il nuovo deposito, che in realtà contiene l'intera collezione. Il vicino museo, che risale al 1935 ed espone circa 3.000 opere d'arte, resterà chiuso fino al 2028 per lavori di ristrutturazione e ampliamento.

Nel Depot, la collezione è oggi distribuita in quattordici reparti, suddivisi in cinque diverse zone climatiche, in cui gli oggetti sono disposti in semplici scaffali industriali o installati su moderni sistemi di appendimento, a seconda del materiale, delle dimensioni, a volte anche dell'epoca e del luogo di provenienza. Un sistema di catalogazione che Sjarel Ex paragona a quello di una biblioteca. In futuro, chi vorrà visitare il Depot dovrà prenotarsi in anticipo e potrà vedere un'unica sezione insieme a un gruppetto di non più di tredici persone, accompagnate da una guida e una guardia di sicurezza. Niente paura: il senso di felicità, la festa per gli occhi saranno garantiti anche dalla vista di un solo segmento della collezione, anzi, iniziano quando si mette piede nel foyer! Ma c'è un'altra cosa molto importante: visitare questo deposito, dare uno sguardo ai laboratori per il restauro – veri e propri spazi hi-tech – rende chiaro e inequivocabile cosa significhi oggi conservare una collezione. Quali sono le tecnologie, le macchine e le attrezzature necessarie per prendersi cura di un assemblaggio di legno, plastica, metallo e piume di pavone, ad esempio, ma soprattutto che tipo di conoscenze, competenze e cure occorrono. «Quasi nessuno sa che cosa bisogna fare per permettere a un dipinto di sopravvivere nei prossimi 100 anni. La conoscenza sul modo giusto in cui prendersi cura del nostro patrimonio è scarsamente diffusa», afferma il direttore. Il Depot incarna anche il desiderio di rendere comprensibile tutto ciò, e non da ultimo di far capire perché si tratta di un'impresa così costosa. E questo vale per ogni museo.

«Lavoriamo per gli artisti e per il pubblico»

A proposito di costi: 2000 metri quadrati del Depot possono essere presi in affitto da collezionisti, aziende o privati, per 400 euro al metro quadrato all'anno. Alcuni di loro aprono le porte ai visitatori. Non c'è da temere che l'importante collezione del Boijmans si svaluti di conseguenza? Dopotutto, non sarà facile per i visitatori tracciare una netta linea di demarcazione tra le diverse collezioni se sono esposte tutte insieme. «Faranno un mix di tutto quello che vedono, ed è giusto così», dice Ex. E con altrettanta disinvoltura spiega le condizioni del piccolo porto franco che Boijmans ha creato per i collezionisti privati. «Cose come queste si fanno già, ma non nei musei. Perché? Noi siamo e restiamo una realtà indipendente, non commerciale che lavora per gli artisti e per il pubblico». Olandesi coraggiosi, insomma. Proprio come Winy Maas, uno dei fondatori dello studio MVRDV. L'architetto spiega il suo progetto per il tetto del Depot che, oltre al boschetto, ospita anche un ristorante e uno spazio per eventi, tutto in vetro, ovviamente. «Come possiamo accusare qualcosa di essere troppo spettacolare? In quale altro modo è possibile affrontare i cambiamenti del mondo, da quello climatico alla frammentazione della società?». Bisogna osare di più, sostiene Maas, per immaginare come sarà la vita della collettività in futuro. Con una «distesa di cose tutte uguali come quella che c'è in Germania», ad esempio, nessuno sa in che direzione stiamo andando. Al Depot Boijmans Van Beuningen è diverso. Il messaggio è chiaro: il futuro appartiene all'arte.

Autrice: Laura Weissmüller

Cronaca 2023

La cronaca offre una panoramica completa e variegata dei nuovi sviluppi e dei cambiamenti nel panorama museale svizzero.

Mai cambiare un sistema che funziona: nel segno di questo slogan puntiamo l'attenzione su alcune istituzioni collaudate che nel 2023 celebrano il loro anniversario. Il Würth Haus Rorschach ha festeggiato «10 anni di arte, cultura, piacere», mentre lo Strohmuseum im Park ha celebrato il proprio decennale assumendo il nuovo nome di Schweizer Strohmuseum. L'Aargauer Kunsthaus, che venti anni fa inaugurava l'edificio ampliato dallo studio di architettura Herzog & de Meuron, ha salutato il suo anniversario rinnovando gli spazi espositivi che sono stati dotati anche di una nuova illuminazione; Herzog & de Meuron hanno inoltre ridisegnato il foyer. Dal 1° al 3 settembre il Museum Burg Zug ha festeggiato il suo quarantesimo compleanno. Il Musée Ariana, Museo svizzero della ceramica e del vetro, fondato ben 140 anni fa, ha celebrato il suo compleanno inaugurando, dopo tre anni di lavori, una mostra permanente completamente rinnovata. Nel 2023 anche il Landesmuseum Zürich ha raggiunto la rispettabile età di 125 anni. Le nostre congratulazioni a tutti i festeggiati!

Questo non è solo l'anno degli anniversari, ma anche di importanti cambiamenti ai vertici, molti dei quali avvenuti già nei primi mesi del 2023. Marcel Henry, ad esempio, è passato dal Kinderdorf Pestalozzi al Museo Hermann Hesse Montagnola di cui ha assunto la direzione. Thomas Egger è il nuovo direttore della Zentralstelle historisches Armeematerial (ZSHAM) e Ute W. Gottschall succede a Jürg Goll nella direzione dello Ziegelei-Museum. Sempre all'inizio del 2023, è stato annunciato l'insediamento di David Bruder alla direzione del Museum Rosenegg di Kreuzlingen. All'inizio dell'anno anche «Camille Bloch - Die Chocolaterie zum Erleben» ha comunicato il passaggio di consegne da Joëlle Vuillème a Hans-Ruedi Reinhard. Rimaniamo nella Svizzera francese: già alla fine del 2022 Fanny Abbott, da lungo tempo vice curatrice del Musée Historique de Vevey, ne ha assunto la direzione in seguito al pensionamento di Françoise Lambert. Al mudac, la responsabile Chantal Prod'Hom è andata in pensione a gennaio, lasciando le redini dell'istituzione a Beatrice Leanza.

Anche Ulrich Schädler, direttore del Musée Suisse du Jeu, è andato in pensione in aprile, lasciando il posto a Selim Krichane. Romina Ebenhöch succede a Elke Larcher alla guida del Klostermuseum Müstair, mentre il nuovo responsabile di SBB Historic è Mario Werren, che prende il posto di Stefan Andermatt. Al Kunsthaus Zug il curatore Marco Obrist è andato in pensione anticipata; la nuova curatrice è Jana Bruggmann, affiancata dalla nuova registrar Alexandra Sattler. Alla metà del 2023, Christine Keller di S-chanf ha assunto l'incarico di direttrice del Mili Weber Museum di St. Moritz. Sempre a metà anno, il Migros Museum für Gegenwartskunst ha annunciato che Heike Munder lasciava la direzione del museo, che è stato affidato a una struttura di gestione collettiva. Contemporaneamente, Severin Bischof ha ceduto il timone del Kirchner Museum Davos a Bianca Bauer. Sempre in estate, Daniel Schmezer, condirettore del Sensorium Rüttihubelbad, ha lasciato a Hans-Ueli Eggimann la guida del museo. Al Museum Schaffen, la direttrice operativa Moscha Huber ha lasciato il suo incarico e la direttrice artistica Sibylle Gerber è in congedo maternità fino alla primavera del 2024, per cui la gestione viene assunta ad interim da un comitato del consiglio di amministrazione dell'Historischer Verein Winterthur – sostenitore del Museum Schaffen – composto da Rita Borner, Anja Huber e Chris Huggenberg. Al Musée suisse de l'appareil photographique, Luc Debraine va in pensione e Pauline Martin assume la direzione. Dall'inizio del 2023, Bruno Heller è il nuovo direttore dell'Ortsmuseum Zollikon, rimasto chiuso fino all'inaugurazione della nuova mostra speciale in primavera. E veniamo così al capitolo successivo.

Nel 2023 si sono succedute anche ristrutturazioni, nuove aperture e ridenominazioni. Il Musée du Mont-Repais è rimasto chiuso fino a primavera per lavori di ristrutturazioni. Il Museo della civiltà contadina di Stabio riapre i battenti nel novembre di quest'anno dopo lavori di manutenzione straordinaria e il riordino delle collezioni, dell'archivio e della biblioteca durati più di un anno. I lavori di ristrutturazione del Musée International de la Réforme di Ginevra sono durati il doppio, ma il museo ha riaperto nel maggio 2023. La Fondation Martin Bodmer di Cologny è ancora impegnata in un'importante opera di ampliamento e ristrutturazione, che è iniziata nel luglio 2023 e si concluderà nella primavera del 2025, quando le sue sale riapriranno al pubblico.

Veniamo ai trasferimenti e ai cambiamenti di nome. L'ENTER di Soletta ha chiuso i battenti alla fine di maggio e dopo essersi trasferito a Derendingen, il 1° dicembre 2023 ha riaperto i battenti con il nuovo nome di Enter Technikwelt Solothurn. Anche la Kunsthalle Ziegelhütte e il Museum im Lagerhaus hanno assunto nuove denominazioni: il primo si chiama ora Kunsthalle Appenzell e il secondo open art museum. Infine, all'inizio del 2023, i Musées cantonaux de zoologie, de géologie e il Musée et Jardins botaniques cantonaux del Cantone di Vaud si sono fusi sotto il nome di Muséum cantonal des sciences naturelles – Naturéum.

Ancora una volta i musei svizzeri sono stati premiati in occasione della manifestazione European Museum of the Year Award. Una menzione speciale è andata all'Abbatiale de Payerne e lo Schweizerische Agrarmuseum Burgrain ha vinto il Premio Meyvaert per la sostenibilità, dopo essere stato insignito del Prix Expo per la migliore esposizione di scienze naturali nel dicembre 2022.