Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 21

Ricerca sulla provenienza, crisi energetica e conversazione al di là delle barriere linguistiche: il 21° numero della Rivista svizzera dei musei presenta l'Iniziativa Benin Svizzera, sostenuta dall'UFC, e il progetto «Museum Climate» lanciato da ICOM Svizzera; la conversazione «Incontri» presenta uno scambio tra due musei di regioni rurali, l'Emmental e la Val Verzasca. Inoltre, le immagini delle nostra «Fotostoria» sulla Sukkulenten-Sammlung diZurigo ci immergono in un museo letteralmente vivace.

Rivista svizzera dei musei 21

A proposito

La Rivista svizzera de imusei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Val Verzasca e l'Emmental: due regioni diverse, realtà museali simili

Veronica Carmine e Carmen Simon a dialogo: musei regionali tra offerta turistica e punto di riferimento per gli abitanti del luogo.

Veronica Carmine dirige il Museo di Val Verzasca a Sonogno, in Ticino; Carmen Simon dirige il Museo regionale Chüechlihus a Langnau, nell’Emmental: realtà museali simili, in due regioni molto diverse della Svizzera. Per entrambi i musei i turisti sono molto importanti, ma la grande sfida è rappresentata dal coinvolgimento della popolazione locale. Dalla conversazione emergono analogie, ma anche differenze.

Potete descrivere brevemente i musei che dirigete?

Carmen Simon : Negli anni 1930, a Langnau è stato aperto un museo in alcuni locali del più antico edificio in legno della regione. Nel 1981 l’intera casa è stata trasformata in museo. Il nostro motto è «L’Emmental in una casa». Disponiamo di 1000 metri quadrati di spazio espositivo, 400 metri quadrati di magazzino e di 25’000 oggetti relativi al patrimonio culturale dell’Emmental. In 25 delle 26 sale espositive è allestita una mostra permanente. Abbiamo anche beni culturali di importanza nazionale, come la ceramica di Langnau.

Veronica Carmine : Il nostro museo è molto piccolo ed è costituito da due edifici situati a Sonogno, l’ultimo paese della Valle Verzasca, a 900 metri di altitudine. Una casa è storica, risale al XVIII secolo; la seconda è stata costruita nel 2017. Per molti anni il museo ha proposto esposizioni su temi classici come il «latte» o la «lana», per ricordare una cultura che si stava estinguendo. Nella nostra sede conserviamo circa 3000 oggetti appartenenti alla civiltà rurale.

Nel 2017 avete cambiato il concetto espositivo. Perché?

Veronica Carmine : Abbiamo deciso di concentrarci su alcuni temi fondamentali. Per esempio sul modo in cui è cambiato il paesaggio nel tempo. Desideriamo mostrare come le persone vivevano e lavoravano un tempo e fare un parallelo con la situazione odiernaodierna. Nella vecchia casa affrontiamo temi come la povertà, il lavoro minorile e gli spazzacamini, mettendo a confronto gli aspetti storici con la situazione attuale nel mondo.

Carmen Simon : È molto emozionante. I nostri musei attraversano fasi diverse tra loro. Finora il museo di Langnau si è concentrato sulla raccolta e sull’esposizione delle testimonianze del passato dell’Emmental. Temi come il «commercio del formaggio» o il «lino» ricorrono nell’esposizione permanente. Ora stiamo lavorando ad una transizione. Abbiamo realizzato un progetto con la squadra di hockey dei Langnau Tigers. Finora non avevamo oggetti posteriori al 1950.

Chi visita i vostri musei?

Carmen Simon : Il nostro museo è orientato a un pubblico di turisti, sebbene Langnau non sia propriamente una località turistica. Abbiamo circa 8000 visitatori all’anno. Oltre a mantenere molti contatti con i social media, siamo riusciti a coinvolgere attraverso i nostri siti web circa 13’500 persone in vari progetti partecipativi. Il nostro museo è imperniato essenzialmente sulla mostra permanente, basata sulla collezione storica, ciò che non induce le persone del luogo a visitarlo spesso. Constatiamo tuttavia che agli eventi da noi organizzati partecipano soprattutto gli abitanti del luogo. Il mio compito è di trovare un nuovo equilibrio. Stiamo cercando di coinvolgere la popolazione, affinché si senta parte del museo.

Come si manifesta concretamente questo aspetto?

Carmen Simon : Ho già menzionato il progetto con la locale squadra di hockey. Abbiamo anche ampliato gli orari di apertura: ora il museo è aperto tutto l’anno, e durante l’inverno non più solo la domenica. Una scelta che si è rivelata pagante, poiché abbiamo riscontrato un maggiore interesse da parte della popolazione.

Il museo di Val Verzasca è invece aperto solo da metà aprile a fine ottobre…

Veronica Carmine : Il nostro museo vive soprattutto grazie ai turisti. Sonogno ha appena 100 abitanti, l’intera valle circa 850. Contiamo circa 4000 visitatori a stagione, la metà dei quali è di lingua tedesca. Per noi è anche molto importante che le scuole visitino sempre più spesso il nostro museo.

Il nuovo orientamento del Museo di Val Verzasca è determinato dalla forte presenza di turisti?

Veronica Carmine : Abbiamo introdotto un nuovo concetto, che non si rivolge però soltanto ai turisti. Abbiamo notato, ad esempio, che mancava il tema dell’emigrazione. Ora, oltre alle stanze che mostrano come viveva la gente un tempo, ne abbiamo aggiunto alcune altre in cui si affrontano temi generali, come la povertà. Si scopre così che in Val Verzasca vi erano bambini che non andavano a scuola in inverno, perché dovevano lavorare come spazzacamini, ad esempio a Milano. Il tema si allarga dunque al lavoro minorile, fenomeno che esiste anche nel mondo di oggi.

Carmen Simone : È un modo molto interessante per guardare alla storia in modo critico e metterla in discussione. Ciò non è facile in una località a vocazione turistica, perché la gente in vacanza cerca leggerezza. Tuttavia, in una museologia di successo è possibile offrire agli ospiti un’esperienza piacevole e allo stesso tempo indurli alla riflessione. Per farlo, occorre stabilire un rapporto con il patrimonio culturale a partire dal qui e ora. Del resto, dietro al patrimonio culturale ci sono sempre delle persone. In qualità di gestori del museo dobbiamo fare questo collegamento, altrimenti falliamo nel nostro intento.

Veronica Carmine : Proprio così. Non dobbiamo limitarci alla descrizione, è necessaria anche l’analisi. Questo aspetto è sottolineato pure dalla nuova definizione di museo elaborata dal Consiglio Internazionale dei Musei ICOM nel 2022. Secondo questa definizione, un museo deve porsi in rete con la società, uscire dalle proprie mura, essere partecipativo.

Come detto, in vacanza si è poco propensi a farsi carico dei problemi del mondo; il museo si propone invece di stimolare i visitatori a riflettere sul presente. Come conciliare questi due aspetti?

Carmen Simone : Credo che la conservazione e la trasmissione del patrimonio culturale siano importanti, così come la riflessione e la discussione sul patrimonio. A tal proposito, credo che quanto detto dalla mia collega Veronica sia molto importante. Dallo scorso anno abbiamo una nuova concezione di museo. Conservare e diffondere l’eredità culturale è importante, ma lo è altrettanto interpretare e discutere tale patrimonio. I principi di base sono quindi: esperienza, riflessione e discussione. In questo risiede la grande arte. I musei devono inoltre essere un luogo di svago. È un bene che ci sia stato affidato ufficialmente questo incarico.

I musei regionali si sono davvero emancipati dai grandi musei grazie alla nuova definizione di museo?

Veronica Carmine : Si tratta di un processo di professionalizzazione. Nel nostro Paese, per molto tempo i musei regionali sono stati gestiti con passione ma a titolo volontario, ad esempio da docenti. Oggi è richiesta una maggiore professionalità.

Carmen Simone : Personalmente, ho un master in studi museali e ho lavorato anche in grandi istituzioni come il Museo storico di Basilea. L’attività in un museo regionale è molto stimolante e altrettanto attraente di quella in un grande museo. Le sfide sono numerose, ma c’è un grande potenziale. Trattiamo temi importanti come la patria e l’identità. In questo contesto, mi interesserebbe sapere come lavorate con la popolazione della Valle Verzasca.

Veronica Carmine : Proponiamo progetti partecipativi e cerchiamo il contatto attraverso i social media. Postiamo eventi sul gruppo Facebook «Se sei verzaschese», che conta più di 1400 membri. In occasione dell’Anno europeo del patrimonio culturale e durante la Primavera gastronomica di Verzasca e Piano abbiamo organizzato nove eventi in nove ristoranti diversi. In ognuno di essi veniva sviluppato un tema specifico al luogo. Ad esempio, in un ristorante il tema proposto era quello della «diga». Chiunque poteva partecipare e portare con sé un oggetto cui era legato affettivamente alla propria storia personale e famigliare.

Poi cosa succedeva?

Veronica Carmine : Lo «Stammtisch» diventava un luogo di scambio e di dialogo culturale. Per un mese ogni ristorante teneva sullo «Stammtisch» l’oggetto «testimone» del tema. In quel periodo gli avventori avevano la possibilità di scrivere la loro storia. Al termine della Primavera gastronomica ho recuperato gli oggetti, le storie scritte, le registrazioni: con questi materiali e documenti di approfondimento ho potuto allestire una mostra partecipata. Gli abitanti della valle hanno percepito il museo come parte della loro identità, non solo come un luogo di una storia passata riservato ai turisti.

Carmen Simone : Qualcosa di simile lo abbiamo fatto con la squadra di hockey del Langnau. Abbiamo chiesto alla gente di portarci degli oggetti e di raccontarci le rispettive storie. Il successo è stato notevole: ancora oggi le persone vengono a raccontare le loro storie, che carico su un’applicazione in modo che possano essere ascoltate dai visitatori del museo mentre guardano un oggetto.

Un altro progetto, sviluppato sempre in collaborazione con la popolazione, riguarda i pezzi che eliminiamo dalla nostra collezione. Ne discutiamo assieme: è un progetto molto stimolante,perché ci porta a discutere dei processi museali, ad esempio della questione se un museo sia autorizzato ad alienare oggetti che fanno parte della sua collezione. I partecipanti possono votare, anche online, su oggetti nella «collezione di smaltimento», richiedere gli oggetti, esprimere un’idea per un eventuale loro riutilizzo. Infine si decide insieme quali idee sono le più convincenti.

Veronica Carmine : Questa via è molto stimolante, ma anche impegnativa. In fondo, si tratta di un processo di democratizzazione e di mediazione nel panorama museale, che vogliamo sostenere. Non è più il curatore che si limita a trasmettere la conoscenza attraverso una mostra, ma sono gli utenti che contribuiscono a plasmare il museo attraverso le loro esperienze e conoscenze.

Di : Gerhard Lob

Come cambia il clima nel museo

Con la crisi energetica, si è aperto il dibattito sulla climatizzazione all’interno dei musei. La questione è complessa, quindi il motto per i musei è: conosci casa tua!

Probabilmente, quest'inverno non erano pochi i dipendenti dei musei che rimanevano stretti nei loro giacconi da sci sul posto di lavoro: in vista della temuta crisi energetica, molte istituzioni finanziate con fondi pubblici hanno dovuto adeguarsi agli obiettivi di risparmio cantonali e abbassare il riscaldamento. Nel frattempo i cantoni hanno revocato le misure di risparmio energetico, ma è chiaro che anche se mantenere temperature gelide nei musei non è una condizione sostenibile a lungo termine, gli istituti culturali hanno il dovere di studiare attentamente la propria impronta energetica. Un museo consuma molta energia e ha un potenziale di risparmio altrettanto elevato, soprattutto per quanto riguarda l'aria condizionata.

«Talvolta abbiamo a che fare con esigenze molto diverse», afferma Natalie Ellwanger, co-presidente dell'Associazione svizzera per la conservazione e il restauro (SKR). Occorre ricordare infatti che nei musei le specifiche condizioni climatiche stabilite per i diversi oggetti e materiali, nei depositi da un lato e nelle sale espositive dall'altro, differiscono in modo sostanziale. Ellwanger accoglie con favore lo sforzo di ICOM Svizzera di lavorare sull’idea di un corridoio climatico esteso anziché su un valore nominale: in altre parole, di consentire un quadro più ampio entro il quale la temperatura e l'umidità relativa possono oscillare.

Il progetto, guidato dalla dottoressa Nathalie Bäschlin – membro del comitato direttivo, conservatore capo del Kunstmuseum di Berna e docente presso l'HKB – è sulla stessa linea di quella stabilita dall'Associazione dei musei tedeschi per affrontare la crisi energetica: una temperatura tra i 18 e i 26 gradi Celsius e un’umidità relativa tra il 40 e il 60%. Attualmente, lo standard più diffuso consente solo oscillazioni di pochi gradi e un'umidità di circa il 50%.

Oscillazioni sì, purché siano lente…

Un piano di emergenza dovuto alla carenza di elettricità non può essere confuso con l’impegno a lungo termine per l'efficienza energetica, anche se mostra la direzione da seguire. Rispettare le condizioni stabilite – sempre e indipendentemente dalle stagioni – è molto costoso, ovvero dissipa energia. È pur vero che le oscillazioni nell'arco delle 24 ore non devono superare la soglia del 5% di umidità relativa e una temperatura di 2 °C.

Come conservatrice e restauratrice, Natalie Ellwanger ha sperimentato la capacità di resistenza degli oggetti, che spesso è superiore a quanto si pensi. «Ho già lavorato in un museo con oscillazioni annuali molto elevate e gli oggetti non hanno subito danni maggiori rispetto a quelli di un museo climatizzato». Il fattore decisivo, tuttavia, è che tali variazioni avvengano molto lentamente: se d'inverno fa freddo e d'estate fa caldo, gli oggetti esposti non soffrono di per sé. La situazione è diversa, invece, se sono regolarmente esposti a grandi sbalzi di temperatura e umidità nell'arco di poche ore.

Come si possono controllare le oscillazioni? Il fattore decisivo è l'edificio. L’isolamento delle pareti esterne è la chiave per un clima organico-costante, così come l'uso di materiali da costruzione igroscopici. Per Ellwanger, il Museo Vorarlberg di Bregenz è la struttura modello: l'intonaco di argilla sulle pareti e i pavimenti in legno grezzo supportano passivamente la regolazione del clima interno. Inoltre, la temperatura non è regolata dall'aria, ma da un sistema di controllo delle pareti e del suolo paragonabile al riscaldamento a pavimento, che può essere utilizzato sia per riscaldare che per raffreddare. La lentezza di questo tipo di regolazione della temperatura la rende ideale per un museo.

Poco margine di manovra per gli edifici antichi

Simili possibilità sono un sogno per Miriam Tarchini, responsabile della conservazione preventiva del Museo Murten. L'istituzione è ospitata nell'antico mulino della città, classificato come monumento storico. Le mura esterne sono in pietra nella parte inferiore e in legno e intonaco in quella superiore, mentre il sottotetto non è isolato. La scala è aperta, non ci sono ambienti chiusi. «Abbiamo poco margine per migliorare la situazione», dice Tarchini, «e non riusciamo a ottenere un clima stabile e auspicabile», quindi anche il potenziale di risparmio energetico è basso. I pezzi sensibili della collezione e i prestiti sono collocati all’interno di vetrine climatizzate, una scelta funzionale ma che limita le possibilità curatoriali.

Anche Werner Müller – responsabile del restauro al Kunstmuseum di Basilea, che da anni si occupa di climatizzazione – sa quanto i musei possano avere esigenze varie. Pur accogliendo con favore l’impostazione dell'ICOM, tuttavia, mette in guardia da soluzioni affrettate. «Abbassare semplicemente l'aria condizionata può essere controproducente», afferma. Vi sono anche problematiche legate ai prestiti internazionali e alle diverse culture. «Nei musei tedeschi o olandesi, di solito sono i restauratori a stabilire le condizioni climatiche che riguardano i prestiti. In Francia e in Gran Bretagna è l'ufficio legale a occuparsene, che si attiene rigorosamente a un'umidità del 48-52%». Quindi i musei che chiedono opere in prestito non possono facilmente implementare il corridoio climatico più ampio finché permangono queste differenze a livello internazionale.

Il Kunstmuseum Basel con il sostegno del cantone, ci informa Müller, sta effettuando una serie di analisi approfondite. L'obiettivo è scoprire come i tre edifici che ne fanno parte reagiscono alle influenze ambientali e alla climatizzazione. Si tratta di una sfida interdisciplinare, vòlta a classificare correttamente i fattori in gioco. «È importante che i musei conoscano bene i loro edifici, afferma Müller. Solo così possono ottenere il massimo con la minore quantità possibile di energia».

Autore Michael Feller, redattore Cultura & società, «Der Bund»

Approfondire insieme la storia degli oggetti

Otto musei svizzeri hanno inaugurato un progetto di ricerca che attraversa due continenti: nell'ambito dell'Iniziativa Benin­–Svizzera, hanno esaminato insieme le rispettive collezioni alla ricerca di opere d'arte saccheggiate. Il dialogo con la Nigeria ha aperto nuove strade alla ricerca.

A partire dal XVI secolo nell'antico regno del Benin, il palazzo del sovrano – chiamato oba – era decorato con numerosi pannelli e sculture: figure zoomorfe e antropomorfe, regalie e ornamenti principeschi, immagini di dei e diavoli. Il significato e le tecniche di produzione di questi manufatti facevano parte di un patrimonio tramandato di generazione in generazione. Questi oggetti, oggi conosciuti come bronzi del Benin, rappresentavano la storia del regno a diversi livelli: i rilievi del palazzo, ad esempio, fungevano da archivio storico, fino a quando l'esercito britannico non invase quella che attualmente è Benin City, nel 1897. Il palazzo venne incendiato, il re deposto e mandato in esilio. Migliaia di opere d'arte furono rubate e attraverso il commercio coloniale i bronzi del Benin finirono in collezioni private e pubbliche di tutto il mondo.

Alcuni di questi oggetti si trovano oggi in collezioni pubbliche svizzere, in particolare il Bernisches Historisches Museum, il Kulturmuseum St. Gallen (ex Historisches und Völkerkundemuseum), il Musée d'ethnographie de Genève, il Musée d'ethnographie de Neuchâtel, il Museum der Kulturen Basel, il Museum Schloss Burgdorf, il Völkerkundemuseum der Universität Zürich e il Museum Rietberg, sempre a Zurigo, che hanno unito le forze per indagare sulla provenienza delle loro collezioni dall'antico regno africano. L’Iniziativa Benin è stata sostenuta dall'Ufficio federale della cultura (UFC) e guidata dal Museo Rietberg, che aveva anche lanciato la proposta.

Il dibattito sulla provenienza degli oggetti culturali saccheggiati e la loro restituzione non è un fenomeno nuovo. La novità sta nel fatto che otto musei svizzeri hanno deciso di affrontare insieme la questione in maniera fattiva. Un’altra novità è data dalla collaborazione molto più stretta con il paese d'origine, nell’ambito della quale grande importanza è stata data allo scambio e al dialogo con gli esperti nigeriani.

Una complessa ricerca che coinvolge due Paesi

Le storie di questi oggetti sono state sviluppate insieme agli studiosi nigeriani attivi nell’ambito del palazzo reale e dei musei nazionali o provenienti dal campo della ricerca. Un ruolo importante in questo contesto è stato svolto da Enibokum Uzebu-Imarhiagbe, storica dell'Università di Benin City che non si è limitata alle ricerche d’archivio, ma si è basata anche sulle storie orali, intervistando gli artisti della corporazione nazionale dei fonditori di bronzo, tuttora esistente.

Il punto di vista nigeriano si è rivelato un’enorme ricchezza per entrambe le parti. Nell'autunno del 2021, ad esempio, visitato le collezioni dei musei svizzeri, Enibokum Uzebu-Imarhiagbe ha osservato. «Per la prima volta ho potuto guardare e toccare gli oggetti creati dai miei antenati e poi scomparsi dal Paese in seguito alla spedizione punitiva», racconta entusiasta in un video che documenta l’iniziativa. Gli esperti svizzeri, a loro volta, hanno potuto beneficiare di una cooperazione intercontinentale che ha fatto luce su questioni rimaste oscure.. Nella primavera del 2022, Michaela Oberhofer e Alice Hertzog, rispettivamente co-direttrice e assistente di ricerca del progetto, si sono recate a Benin City. «La parte più emozionante di questo progetto è lo scambio, sia tra la Nigeria e la Svizzera in quanto Stati, sia tra i ricercatori di entrambi i Paesi», afferma Enibokum Uzebu-Imarhiagbe.

Un momento storico al Museo Rietberg

All'inizio di febbraio 2023 anche il grande pubblico ha potuto rendersi conto personalmente dell'importanza di questa cooperazione transnazionale. Nella gremita sala conferenze del Park-Villa Rieter, che fa parte del Museo Rietberg, la relazione finale del progetto è stata consegnata a una delegazione di dieci persone provenienti dalla Nigeria. «Un momento storico», mormoravano i presenti. Dalla ricerca è emerso un dato fondamentale: vi è la probabilità e in altri casi la certezza che circa la metà dei 100 oggetti del Benin conservati nei musei svizzeri siano frutto di saccheggio.

I partecipanti all'iniziativa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta sulla futura gestione dei reperti. I musei sono aperti alla possibilità che i vecchi proprietari si riapproprino degli oggetti saccheggiati. «Questo potrebbe significare che gli oggetti verranno restituiti alla Nigeria», spiega Michaela Oberhofer. Ma potrebbero anche rimanere in prestito nei musei svizzeri. Dal canto suo, l’UFC ha deciso di finanziare il progetto per un altro anno al fine di rafforzare la ricerca collaborativa, ma anche la comunicazione congiunta nelle sedi espositive. Inoltre, sarà rafforzata la cooperazione dei musei in possesso di collezioni controverse.

Nel frattempo però, negli Stati Uniti c’è chi si oppone a qualsiasi forma di restituzione: i discendenti di nigeriani ridotti in stato di schiavitù hanno presentato anni fa una richiesta di comproprietà dei bronzi del Benin, motivando la richiesta con una visione critica del Regno del Benin, a sua volta coinvolto nel traffico transatlantico di schiavi. I bronzi, ammirati in tutto il mondo, sono il risultato della fusione di metalli europei – un materiale che veniva scambiato con carichi di schiavi, prima dai portoghesi e poi da altri mercanti del Vecchio Continente.

In qualsiasi luogo saranno esposti in futuro i tesori del Benin, con la formale consegna del rapporto, la relativa copertura mediatica e l’allestimento della mostra «Wege der Kunst» (Vie dell'arte) al Museum Rietberg, le istituzioni coinvolte hanno portato all'attenzione del pubblico questioni importanti e fornito informazioni sulla ricerca della provenienza come contributo alla decolonizzazione dei musei.

Tra i curatori di «Wege der Kunst» c’è Esther Tisa Francini, responsabile dell'archivio dei documenti scritti e della ricerca sulla provenienza al Museum Rietberg. Francini si occupa della storia della collezione del Rietberg dal 2008 ed è tra i responsabili dell'Iniziativa Benin Svizzera. A lei abbiamo rivolto qualche domanda sul modo di illustrare al pubblico il contesto coloniale nell’ambito della mostra.

KF : L'Iniziativa Benin Svizzera (BIS) è documentata anche all’interno della mostra «Wege der Kunst». Di cosa si tratta?

ET : Raccontiamo le storie degli oggetti che finora sono rimaste nascoste e lo facciamo nel modo più esauriente possibile. In origine, «Wege der Kunst» doveva essere una mostra speciale a sé stante, ma poi abbiamo optato per un concetto diverso: volevamo narrare queste storie alla luce di esempi rappresentativi appartenenti alle nostre collezioni. Per questo motivo abbiamo assegnato loro un posto nella mostra permanente, dove entrano in dialogo con le collezioni.

Volevamo poi allontanarci da una presentazione degli oggetti incentrata sull'estetica per passare a nuove narrazioni museali dalle prospettive multiple. Illustrando il contesto di provenienza, la presentazione assume una nuova dimensione: ci chiediamo chi siamo e cosa facciamo, quindi mostriamo anche la storia della nostra istituzione. In futuro vorremmo assegnare un’importanza ancora maggiore al punto di vista dei Paesi d'origine.

Non si tratta di un eccesso di informazioni? Perché per lei è fondamentale che il pubblico riceva un quadro completo del contesto? 

Credo che i musei siano percepiti come realtà statiche e le collezioni come entità chiuse. Si tratta però di un'immagine falsa, che noi intendiamo integrare e rinnovare per rivelare al pubblico quanto la realtà di Zurigo e le persone che lavorano nel settore siano differenti tra loro e interconnesse a livello globale. È interessante guardare più da vicino il mondo museale e scoprire perché questi oggetti sono qui e in virtù di quali meccanismi. E non sono solo i musei ad avere collezioni coloniali, ma anche famiglie e aziende. La misura in cui le strutture coloniali continuano ad esercitare i loro effetti sul mondo di oggi riguarda quindi l'intera società. Per questo la mostra intende stimolare la riflessione, sensibilizzare sulle questioni storiche e ampliare gli orizzonti.

Sembra un compito impegnativo. Quanto è stato difficile integrare questo contesto negli spazi esistenti? 

Gli interventi hanno richiesto una pianificazione completa che ha visto la collaborazione di tutti i curatori. Non intendevamo più esporre i pezzi come oggetti isolati collocati su un piedistallo, ma metterli in relazione con le fonti, con i documenti d'archivio: fotografie, testi, ricevute d'acquisto, lettere, ecc. Molto curata, anche in termini di design e architettura, è stata la modalità di presentazione all'interno delle collezioni. Abbiamo optato per grandi vetrine modulari che potessero combinare in modo flessibile i più diversi tipi di oggetti, consentirne la visione da più punti e adattarsi bene agli spazi delle collezioni.

Le numerose postazioni, gli oggetti esposti, le storie e i testi offrono un coinvolgimento sostenibile e a lungo termine. Inizialmente la mostra – che può anche essere visitata in più tappe, poiché è costituita da storie e unità autonome che è possibile approfondire singolarmente – avrebbe dovuto avere la durata di un anno, ma è stata poi prorogata di altri nove mesi.

Avete anche un'offerta su misura per i bambini. Spesso il pubblico più giovane non ha molta familiarità con il mondo dei musei. Cosa vorreste che portassero con sé? 

Innanzitutto la consapevolezza del fatto che gli oggetti della nostra collezione non sono semplicemente sempre stati lì, ma hanno compiuto dei percorsi che è possibile tracciare. Inoltre vogliamo far capire che il fare arte può avere molte sfaccettature, che le opere celano indizi tutti da interpretare e che dietro ciascuna di esse ci sono persone e motivazioni diverse.

Quali reazioni avete registrato fino a questo momento?

Abbiamo ricevuto un ottimo feedback dagli esperti. E nell’ultima sala della mostra, con un'area salotto e una piccola biblioteca, il pubblico ha avuto l'opportunità di manifestare le proprie reazioni e riflessioni. Ad esempio, qualcuno ha scritto: «La cultura va molto al di là del punto di vista europeo». Altri hanno sollevato la questione della restituzione. Apprezziamo molto questo tipo di feedback – alcuni dei post-it possono essere visualizzati sul sito web. Faremo senz’altro tesoro di questi commenti quando lavoreremo alle prossime mostre.

Autrice: Katharina Flieger