Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 19

l 19° numero della Rivista svizzera dei musei affronta il tema della ricerca sulla provenienza: che significato ha per case come il Kunst Museum Winterthur o il Kunstmuseum Bern e il Zentrum Paul Klee? E quali sono le possibilità per i musei di riflettere criticamente sulle proprie collezioni e rendere i risultati accessibili a un pubblico più ampio? Il Musée d'art et d'histoire de Neuchâtel ha creato uno spazio interessante per i dibattiti su questo tema con la sua nuova mostra permanente «Mouvements».

Rivista svizzera dei musei 19

A proposito

La Rivista svizzera de imusei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Un dialogo tra passato e presente

In cosa consiste l’importanza sociale dei musei e che ruolo ha in questo contesto la ricerca sulla provenienza? Intervista con Nina Zimmer e Konrad Bitterli.

Nina Zimmer è direttrice del Kunstmuseum Bern e del Zentrum Paul Klee dal 2016. Nel 2017 Konrad Bitterli ha assunto la direzione del Kunst Museum Winterthur, che dal 2018 comprende anche la Collezione Reinhart allo Stadtgarten e Villa Flora. Intervistati da Susanne Koeberle, i due delineano una panoramica delle loro istituzioni.

La ricerca sulla provenienza è un concetto molto ampio. Di quali tematiche si occupano, concretamente, i vostri musei?

Bitterli : Da quando ho assunto la direzione del museo nel 2017, abbiamo istituzionalizzato la ricerca sulla provenienza. Nel complesso, le nostre collezioni sono ben documentate, anche se le relazioni che accompagnano le opere sono state redatte in un’epoca in cui la provenienza non era così importante come oggi. Abbiamo quindi iniziato a riesaminare i fatti cercando di colmare le lacune. Questo comporta un lavoro minuzioso che si svolge dietro le quinte.

Zimmer : Mentre il Kunstmuseum Bern ha avuto a che fare con il caso Gurlitt, per il Zentrum Paul Klee il tema non è così scottante, visto che le opere di Klee provengono dal lascito dell’artista. Dopo aver accettato la collezione Gurlitt, abbiamo più volte fatto dichiarazioni pubbliche sulle varie fasi del nostro lavoro. Ora che l’acquisizione è in gran parte completata, posso dire che negli ultimi anni tutti noi abbiamo imparato molto e ci siamo posti nuovi interrogativi. Riteniamo che il nostro compito sia anche quello di guardare le collezioni esistenti sotto una nuova luce.

E il tema del colonialismo?

Zimmer : Non è una tematica che interessa il Zentrum Paul Klee mentre al Kunstmuseum riguarda singoli oggetti indigeni provenienti da lasciti. Non è l’obiettivo principale del nostro lavoro, ma cerchiamo comunque di trattare questo tema con la stessa attenzione che dedichiamo agli altri.

Bitterli : Anche per noi non è l’obiettivo principale, dal momento che nessuna delle nostre opere proviene da un contesto coloniale. Credo che saranno soprattutto i musei etnologici a dover affrontare nuove sfide; anche in questi casi occorrerà procedere con grande cura scientifica per chiarire le provenienze.

Quanto è importante comunicare i risultati di queste ricerche al grande pubblico?

Bitterli : Quando si hanno casi esemplari ne vale sicuramente la pena, come hanno dimostrato le mostre sulla collezione Gurlitt a Berna. Generalmente però i risultati non sono così spettacolari; la domanda da porsi in ogni caso è se esistano eventi rilevanti che possono essere organizzati. Nel 2014 e nel 2015 l’ex Museo Oskar Reinhart aveva organizzato convegni sui «beni in fuga», durante i quali è stato anche discussa la questione della diversa terminologia. In ogni caso, trasparenza e comunicazione sono i fattori chiave.

Zimmer : Percepisco un ampio interesse del pubblico nei confronti di queste tematiche e dobbiamo chiederci quali siano i formati più appropriati per veicolarle. In autunno verrà inaugurata la terza mostra sulla collezione Gurlitt dal titolo «Gurlitt. Un bilancio». Inoltre, abbiamo realizzato piccole mostre sugli interventi messi in atto nella collezione. Abbiamo anche organizzato una conferenza sul tema «Depositi. Trasferimenti di beni culturali a seguito di persecuzioni e conseguenze per i musei svizzeri (1933–1950)» accessibile attraverso vari formati. Anche le scuole vengono introdotte all’argomento. A livello digitale, è possibile ricercare l’intera collezione sulla banca dati che è online dallo scorso dicembre. Si tratta di strumenti diversi per creare trasparenza e attirare il pubblico, ma anche per soddisfare la sua curiosità.

L’uso di certi termini genera confusione. Per molto tempo, la Svizzera ha fatto una distinzione tra «arte saccheggiata» e «beni in fuga».

Zimmer : Noi applichiamo la definizione di «sottrazione a seguito di persecuzioni». L’importante comunque è valutare caso per caso.

Bitterli : Questi termini sono stati oggetto di lunghi dibattiti. Alla fine, la cosa da fare è una sola: bisogna condurre una ricerca approfondita ed esporre i fatti, non c’è altro modo. La discussione sulla terminologia a volte mi sembra una cortina fumogena.

Qual è il compito dei musei nel trattare il passato e in che misura l’arte può contribuire a rileggerlo?

Bitterli : In quanto oggetto estetico, l’arte ha un valore in sé. Allo stesso tempo, rivela un contesto storico-culturale e narra storie. Il museo ha il compito di dare visibilità a tutto questo e in ciò rientra anche la ricerca sulla provenienza.

Zimmer : I musei sono «macchine» che creano identità e rendono gli oggetti del passato accessibili al pubblico di oggi. Hanno anche il compito di fornire un orientamento. Il modo in cui affrontiamo la storia esprime il modo in cui vogliamo vivere insieme e agire come società. Il lavoro museale si estende sempre alla sfera politica.

Può il museo avere un ruolo di moderatore all’interno dei processi sociali?

Bitterli : Non solo i musei riflettono tali processi, anche l’arte in sé lo fa. I musei non sono che una piattaforma utile a esporre l’arte. Cosa mostrare e come, poi, dipende dal museo. Il modo in cui avviciniamo l’arte del passato riflette anche la maniera in cui affrontiamo le nostre origini e il nostro patrimonio culturale. Mi sembra ancora più importante che i musei aprano le porte al presente, perché gli artisti sono i sismografi della contemporaneità.

Zimmer : Sono stati gli stessi artisti a sollevare il tema della riflessione critica sulle istituzioni, la cosiddetta «Institutional Critique». E questo non si può ignorare. Al tempo stesso, non possiamo semplicemente delegare il discorso agli artisti. Non abbiamo un mandato attivista, siamo uno spazio pubblico, cofinanziato da denaro pubblico in cui è possibile il dibattito. Ma come istituzione museale abbiamo la responsabilità di ciò che ammettiamo e rendiamo possibile. La società ha molte richieste riguardo a questo spazio simbolico.

Dove risiede secondo voi il potenziale per un crossover tra la classica presentazione delle collezioni e le posizioni contemporanee?

Bitterli : Questo è un punto cruciale. In passato, le mostre erano soprattutto una rappresentazione della storia dell’arte. Il confronto tra presente e passato rende nuovamente leggibile quest’ultimo. D’altra parte, il presente, che talvolta ci appare estraneo, diventa comprensibile perché viene contestualizzato. Si tratta di approcci produttivi che sollevano interrogativi sul mondo e sull’esistenza umana. Ma non si tratta in alcun modo di illustrare il passato attraverso il presente.

Zimmer : La stretta collaborazione con gli artisti contemporanei è molto importante ai miei occhi: solo attraverso questa complicità possiamo porre al passato le giuste domande sul nostro presente. Tuttavia, non si tratta semplicemente di vivacizzare la collezione storica con qualche intervento crossover. In questo modo l’arte contemporanea rischia di scadere rapidamente nel ruolo di «condimento».

E per quanto riguarda i finanziamenti della ricerca sulla provenienza?

Zimmer : Un punto importante che non ha ancora trovato una soluzione. Dal 2016 l’Ufficio federale della cultura ha messo in atto importanti programmi di finanziamento su base paritetica. Inoltre, dopo la decisione di accettare il lascito Gurlitt, abbiamo ricevuto un sostegno eccezionale anche da fondazioni private. Tuttavia, per il compito principale del museo, ovvero la ricerca sulle proprie collezioni, in futuro dipenderemo dal sostegno del Cantone.

Bitterli : Il sostegno ai musei da parte dell’UFC per quanto riguarda la ricerca sulla provenienza è stato molto importante. Tuttavia, da questo tipo di approccio non è mai stata tratta una conseguenza fondamentale: offrire l’opportunità economica di riacquisire opere problematiche in modo da rendere la loro storia accessibile al pubblico. È un peccato.

Auteur : Susanna Koeberle

L'eredità coloniale nei musei

Il Musée d'art et d'histoire di Neuchâtel (MahN) colloca in una cornice globale la propria collezione e la storia della regione. Il nuovo allestimento, dal titolo «Mouvements», riprende i dibattiti attuali e li comunica al pubblico contestualizzandoli storicamente.

Cercasi addetto alle pulizie, aiuto cuoco, autista… Innumerevoli annunci pubblicati sui giornali di Neuchâtel negli anni ’60 ricoprono una parete della mostra; tutti hanno in comune la nota «Etrangers exclus» o «Italiens exclus»– stranieri o italiani esclusi. Le fotografie sulla parete di fronte, invece, mostrano i lavoratori reclutati in maniera mirata nei paesi vicini da aziende come la Suchard, ad esempio. Nello spazio tra questi due muri – le parole intransigenti dell’esclusione da una parte e le testimonianze delle politiche per l’immigrazione nella Svizzera del dopoguerra dall’altra – si svolge il discorso sull’immigrazione e l’emarginazione nel paese. Il legame con il presente è dato dalle carte d’identità che indicano con colori diversi lo stato di residenza degli immigrati. Tra questi c’è lo status di «S», usato per la prima volta solo poche settimane dopo l’inaugurazione della mostra, all'inizio del 2022.

La nuova esposizione permanente al Musée d'art et d'histoire de Neuchâtel (MahN) include molte «zone di tensione» come questa. Il titolo «Mouvements» si riferisce agli spostamenti di persone, idee e concetti, ma anche di merci e oggetti. Il MahN si è assunto il compito di ricercare, riflettere e divulgare la sua collezione e la storia della propria regione adottando un approccio transdisciplinare. Il risultato è un panopticon riuscito della storia di Neuchâtel e delle sue connessioni con il mondo.

L’eredità coloniale della Svizzera

All’ingresso della mostra, una grande installazione contemporanea illumina i visitatori dall’alto acuendo i loro sensi e preparandoli alla ricezione dei contenuti e degli oggetti che li attendono: ritratti di 160 persone di ogni colore che si sono stabilite a Neuchâtel nel corso della loro vita o che hanno lasciato il cantone per andare altrove; armi e armature della collezione storica giustapposte ad alcuni dipinti e a una scultura; le tre bambole automatiche «Jaquet Droz», testimonianze della più raffinata arte dell’orologeria e molto altro ancora. Il movimento stesso – sia esso meccanico o ideale – è tematizzato e assume le stesse valenze che ha nelle vite degli esseri umani: restare, partire, arrivare, ricordare, tornare.

Ma il MahN fa un grande passo avanti e getta uno sguardo al passato coloniale della città di Neuchâtel e dell’intero paese. Anche se la Svizzera non possedeva colonie, trasse indubbiamente profitto dal sistema coloniale: gli uomini d’affari svizzeri erano attivamente coinvolti nel commercio di materie prime e di schiavi, oltre ad amministrare le loro piantagioni sotto la protezione delle potenze coloniali. Non solo, esploratori e scienziati svizzeri presero parte alle spedizioni coloniali e mercenari svizzeri furono coinvolti nella conquista e nella conservazione del potere in varie colonie.

Questi legami del paese col sistema coloniale raggiungono il punto culminante a Neuchâtel nella statua di David de Purys. Eretta nel 1855 nella «Place Pury», in pieno centro, la statua in bronzo era un omaggio a David de Pury, grande benefattore della città. Questo ricco banchiere e imprenditore di Neuchâtel, con un titolo nobiliare prussiano e la cittadinanza inglese, scomparve a Lisbona nel 1786 dopo una vita trascorsa per lo più all’estero. Alla sua morte lasciò gran parte dei propri averi alla sua città natale. La somma di oltre 300.000 cruzados portoghesi (circa 600 milioni di franchi svizzeri secondo le stime odierne) fu utilizzata per finanziare la costruzioni di edifici-simbolo della città, tra cui il municipio.

Comunicare la complessità in modo trasparente

In seguito l'immagine del benefattore ha iniziato a incrinarsi finché intorno alla statua si è scatenato un acceso dibattito. Già alla fine degli anni ’80, si parlava del coinvolgimento finanziario di De Pury nella tratta degli schiavi. Nell’estate del 2020 la statua è stata imbrattata di vernice e il «Collectif pour la mémoire» ha lanciato una petizione per chiederne la rimozione. Al suo posto avrebbe dovuto essere installata una targa in memoria di tutti coloro che hanno sofferto e continuano a soffrire a causa del razzismo e della supremazia dei bianchi.

L’équipe del museo guidato da Chantal Lafontant Vallotton e Antonia Nessi ha subito avuto chiaro che il nuovo allestimento avrebbe dovuto integrare questi sviluppi attuali del dibattito – e ciò malgrado il fatto che il primo concept della nuova mostra permanente fosse già stato concepito nel 2017, in anticipo sui tempi. «È importante inquadrare questo dibattito in una prospettiva storica», spiega Chantal Lafontant Vallotton, co-direttrice del museo dal 2001. Così, i visitatori potranno vedere le rotte del commercio triangolare transatlantico tracciate su una mappa, insieme a una panoramica di Neuchâtel in cui sono indicati tutti gli edifici che furono finanziati da famiglie o società coinvolte nelle attività coloniali. In una serie di interviste (disponibili presso la postazione audio e sullo smartphone tramite codice QR o sito web), gli studiosi Thomas David, Bouda Etemad, Matthieu Gillabert e Kristina Schulz spiegano nei dettagli il coinvolgimento di Neuchâtel nell'impresa coloniale, parlando anche dello stato attuale della ricerca, degli ostacoli e dei dibattiti in corso. La mostra riesce così a trasmettere una storia complessa in maniera trasparente e intelligente.

Da tabù a tema ricorrente

Quando il MahN ha affrontato per la prima volta il tema delle famiglie coinvolte nel commercio degli schiavi in occasione di una mostra nel 2011, il pubblico si è mostrato piuttosto reticente. Ricorda Lafontant Vallotton: «Quasi nessuno ne parlava: la gente sembrava imbarazzata». Eppure è un tema ineludibile, sottolinea, e aggiunge: «Oggi sarebbe incomprensibile tacere su questo argomento».

Due anni dopo, solo una dozzina di persone si sono presentate a una conferenza sul tema. Ma poi il movimento a favore della rielaborazione della storia è finalmente decollato: nel 2018, quasi 150 persone hanno partecipato a un dibattito sull’argomento e oggi Neuchâtel fa apertamente i conti con il passato e con le ombre che la figura di De Pury getta sulla città.

Più un inizio che una fine…

Il confronto con la storia non è affatto finito. A Neuchâtel stanno approntando un’audioguida che individua le tracce del passato coloniale in un tour della città. Inoltre, nel novembre 2021 è stato lanciato un bando per la realizzazione di progetti artistici intorno alla statua di David de Pury. Nel marzo 2022 sono state premiate quattro proposte, due delle quali ora in fase di attuazione. Per il prossimo settembre, insieme ad altri eventi, il museo ha in programma una conferenza dello storico Pap Ndiaye, direttore del Musée de l'histoire de l'immigration di Parigi.

Il MahN «osa » così cercare un equilibrio tra il discorso scientifico e una trasmissione dei contenuti rivolta al vasto pubblico. Gli inizi sono promettenti: finora «Mouvements » è stata accolta positivamente, anzi ha avuto un’eco eccezionale, riferisce Lafontant Vallotton. Ottime premesse per il futuro, perché la mostra dovrebbe essere un luogo che continua a svilupparsi: «Non è un punto di arrivo».

Auteur : Katharina Flieger

Un museo esistenziale per l’uomo del XXI secolo

Luogo in cui realtà e fiaba convergono, il museo H. C. Andersen rappresenta una novità assoluta nel panorama museale.

Pensando ai tempi in cui viviamo, all’esperienza pandemica e alla guerra in Ucraina, alle nostre vite quotidiane compresse dentro mille impegni e spostamenti, all’orizzonte che per ognuno di noi sembra essersi ristretto per via di quella leggerezza e di quella facilità perdute che una volta avevamo nel fare progetti, a parole come precarietà e stress che sempre di più connotano le nostre esistenze, un museo come quello inaugurato la scorsa estate a Odense in Danimarca è proprio quello che ci vuole. Chissà, forse è il primo di molti che nasceranno, sicuramente è una prima nel suo genere. Intanto perché nasce dalla stretta collaborazione tra architettura e concetto museale a tal punto che l’architettura si fa essa stessa concetto, diventa essa stessa storytelling e percorso espositivo. È al contempo contenitore e contenuto.

Non si può capire lo spirito del progetto se non si conosce la persona e l’opera di Hans Christian Andersen, il più grande scrittore e poeta danese, vissuto dal 1805 al 1875, che sin dall’entrata del museo fa gli onori di casa. Con la sua voce incisa su un nastro lo sentiamo discutere con il narratore che tenta di raccontare la sua biografia: «Non sono nato in un buco come questo!» gli dice. Lo era invece: Andersen è nato nella piccola casa gialla al numero 45 di Hans-Jensen-Straße. Alle case museo di grandi scrittori o artisti – mantenute, impreziosite con i loro oggetti e i racconti delle loro vite – eravamo abituati. Ma un luogo che si fa emanazione del poeta, si manifesta e si esprime attraverso le sue opere e il suo universo fantastico come se fosse ancora presente, ancora tra di noi, è qualcosa di assolutamente inedito.

L’artefice del museo è Kengo Kuma, tra i più importanti e significativi architetti giapponesi contemporanei, da anni impegnato in una critica all’uso del calcestruzzo nel tentativo di trovare un’alternativa a questo materiale. Predilige il legno, la pietra, la ceramica e il bambù, la sua poetica declina i materiali in funzione della loro capacità emotiva, connessa alle caratteristiche costruttive intrinseche e agli insegnamenti della tradizione giapponese. Fondamentale nelle sue costruzioni è l’uso della luce, con la quale tenta di raggiungere un senso di «immaterialità spaziale». Caratteristiche che ritroviamo nel museo danese. Costato più di 50 milioni di euro e sorto in pieno centro cittadino, l’edificio si sviluppa tra la superficie e il sottosuolo su un’area di 5600 mq, di cui due terzi interrati. Più che come un museo si presenta come un grande giardino composto da diverse isole verdi, alte siepi che ricordano labirinti, laghetti, fiori, alberi, passatoie in legno e grandi padiglioni di vetro e legno che si integrano perfettamente nel contesto, quasi fossero anch’essi nati dalla terra. Tutto è tondeggiante e sinuoso, non ci sono angoli o spigoli. «Giochiamo a mescolare ciò che è fuori con ciò che è dentro, natura e architettura», dice il direttore creativo Henrik Lübker in un’intervista pubblicata sul sito del museo. Il visitatore transita in un mondo a metà tra realtà e fiaba. In questo gioco, in questa trasposizione dei piani il giardino che per primo ci accoglie e tocca i nostri sensi ci prepara all’esperienza, crea in noi quella disponibilità ad abbandonare la sfera razionale per immergerci nel mondo delle fiabe e della fantasia di Andersen.

Sinergia tra volumi architettonici e spirito del progetto 

Le parole di Lübker rendono bene l’idea quando dice che «è un museo esistenziale» il cui scopo è quello di offrire alle persone un luogo, un universo in cui nulla è come appare e tutto ciò che credevamo di sapere viene stravolto dandoci la possibilità di conoscere ed esperire ripartendo da zero. Pensiamo alle diverse fiabe di Andersen, a come stuzzicano la fantasia, a come giocano con le nostre certezze e i luoghi comuni, a come sondano la natura umana mettendone in luce fragilità e paure, ambizioni e velleità, astuzie e cattiverie. Penso in particolare a I vestiti nuovi dell’imperatore, Il brutto anatroccolo, Il folletto del droghiere e L’ombra. A proposito di quest’ultima, in una delle diverse stazioni interattive ci si può stupire di come la propria ombra prenda forma e vita propria; più avanti si viene catturati dal canto delle sirene sott’acqua, mentre in una delle diverse stanze che si aprono al cielo attraverso preziosi e geometrici lucernari ci si può stendere su dei sassi e contemplare la volta celeste. Oppure ci sono i venti materassi su cui ha dormito la principessa e accanto, sotto vetro, poggiato su due cuscini rossi come fosse un gioiello prezioso, il famoso pisello.

Prima parlavamo della perfetta sinergia tra volumi architettonici e spirito del progetto, sinergia amplificata da altri due attori che hanno contribuito a dare forma, volto e anima al museo. Intanto lo studio di architettura paesaggistico di Helsinki Masu Planning e poi la Event Communications, agenzia londinese che disegna esperienze ed è entrata in gioco prima del progetto architettonico di Kengo Kuma. È stata l’agenzia londinese infatti a pensare la narrativa capace di ricreare l’universo anderseniano facendo così da guida alla realizzazione architettonica. Il risultato è un percorso in cui ogni passaggio, vista, scorcio, curva e piega sono in sintonia e fanno parte del complessivo racconto di un museo ben disegnato, ingegnoso e magico in cui anche i giardini esterni ed interni sono interconnessi, catturano e restituiscono lo spirito dell’autore e delle sue opere. Questo mondo perfettamente illogico è stato realizzato da un ensemble di creativi e geni tecnici, artisti e compositori premiati, maestri burattinai e acclamati autori che insieme si sono sbizzarriti con effetti visivi, dispositivi interattivi, uso della tecnologia kinect e il suono ambisonico innescato per creare illusioni visive. Il suono binaurale, mappato in 3D, si riversa nell’audio guida: basta avvicinare la testa a un oggetto per sentirlo parlare. «Non vogliamo dire al visitatore cosa sentire o pensare, né controllare in modo eccessivo la narrazione: il nostro intento è di far nascere spontaneamente emozioni e sentimenti», dice il direttore.

Il mondo umano e quello naturale sono una cosa sola

Risvegliare insomma il fanciullo che è in noi, che poi fu la nota essenziale dello spirito di Andersen, viaggiatore curioso e instancabile, sempre felice di partire per qualche paese nuovo, sempre pronto a riconoscere il bello, lui che inizialmente era stato messo a dura prova dalla vita. Nei suoi tanti generi, dal romanzo, alla fiaba, alla poesia percepiamo l’uomo che ha aperto gli occhi sulla realtà ma non ha perso il nativo candore del sentimento e la gioia di vivere, la fede in sé e in tutte le cose che esistono. Andersen concepiva il mondo umano e il mondo della natura come una cosa sola.

Nella hall d’ingresso il visitatore può scegliere il suo percorso sviluppato in quattro isole tematiche e dodici stazioni che raccontano precisi momenti di alcune fiabe di Andersen. Oltre agli effetti speciali già raccontati, ci sono 200 manufatti suoi originali in mostra. Sulla scala iniziale si è subito accompagnati da alcune citazioni: «Chi mi piacerebbe essere se non fossi me stesso? Hans Christian Andersen. Cosa temo più di ogni cosa? Me stesso» e ancora «Nei giorni felici non dimenticatevi del poeta». Desiderio esaudito. Ora la speranza è che Odense, la terza città danese, attiri più turisti, più di quei 100.000 che arrivavano prima della pandemia, di cui il 70% dall’estero, in particolare inglesi e cinesi.

Intanto il giardino pensato anche come una verde oasi rigenerativa urbana resta sempre aperto al pubblico. Anche questo rispecchia il messaggio che Andersen rivolgeva ai suoi lettori e oggi appare più attuale che mai: possiamo trovare e vivere i nostri sogni anche nella quotidianità.

Auteur : Natascha Fioretti