Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 17

Il 17° numero della Rivista svizzera dei musei si occupa della diversità del paesaggio museale sotto vari aspetti: il lavoro delle piccole istituzioni culturali nelle regioni montane svizzere è contrapposto a uno sguardo alla gigantesca impresa del Grand Egyptian Museum. Esamina anche gli approcci alla diversità e il suo potenziale nei musei svizzeri.

Rivista svizzera dei musei 17

A proposito

La Rivista svizzera de imusei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Dialogo tra un monte e l’altro

Peter Langenegger e Anne-Louise Joël parlano della sfida di gestire un'istituzione culturale in montagna.

Il Museo d'Engiadina Bassa si trova sulla piazza del villaggio nel centro storico di Scuol; Casa d'Angel è nel cuore di Lumbrein, nella Surselva, dalla parte opposta del Cantone dei Grigioni. Malgrado ciò, le due istituzioni culturali hanno molte cose in comune, come Peter Langenegger e Anne-Louise Joël scoprono durante la loro conversazione su Zoom.

Come descriverebbe la sua istituzione culturale?

Peter Langenegger : Il Museo d'Engiadina Bassa è una tipica casa engadinese del XVII secolo. I visitatori e la gente del posto hanno l'opportunità di visitarne diverse stanze dalle pareti rivestite di pino cembro, arredate in modo originale e risalenti a epoche diverse. La «stüva da Lavin» del 1550 è la più antica Stube dell'Engadina aperta al pubblico. La casa ospita anche molti tesori inaspettati, come la prima Bibbia in romancio del 1679 e la biblioteca donata dal fondatore del museo Men Rauch. L'edificio è in sé di grande effetto. Chiamato «la clastra», ossia il monastero, fu fatto costruire da Eberhard, signore di Tarasp, a Scuol Sot alla fine dell’XI secolo. I muri di fondazione si sono conservati fino a oggi.

Anne-Louise Joël : Casa d'Angel ha esattamente 400 anni ed è stata ristrutturata dall'architetto Peter Zumthor, per questo abbiamo molti visitatori interessati a vederla per la sua architettura. Non è un museo in senso classico, ma una casa della cultura in cui si organizzano conferenze, piccoli concerti e una mostra annuale. Attualmente esponiamo una serie di fotografie della Surselva risalenti agli anni 1900-1950. Abbiamo scelto di riprodurre immagini che mostrano la vita rurale quotidiana nella valle; vi si vedono quindi persone, attrezzi agricoli, animali ed edifici. Quest'anno abbiamo collaborato con il Museo Regiunal Surselva di Ilanz e con la Fotostiftung Graubünden di Coira. I visitatori possono fare un piccolo tour attraverso le tre sedi e guardare le fotografie.

Qual è il vostro oggetto preferito tra quelli conservati nel museo?

Langenegger : Ce ne sono così tanti che la scelta è difficile. Molto particolare è un triciclo dell'epoca del turismo termale in Bassa Engadina, risalente alla metà dell’Ottocento. Apparteneva a un gioielliere di Zernez che la usava per attraversare il passo dell'Ofen diretto verso i suoi clienti in Val Müstair.

Joël : Non c'è nessuna collezione nella Casa d'Angel. L'unico oggetto in esposizione permanente è il grande gruppo di cristallo nell'ex stanza dell'archivio vicino all'entrata. Pesa circa 950 chili ed è stato trovato nel 2000 sulla montagna di fronte. L'Associazione Pro Lumerins ha comprato il cristallo dal suo scopritore e lo ha depositato qui in prestito. È un miracolo che sia entrato nell'archivio, perché non passa nemmeno per la porta.

Come fanno piccole istituzioni culturali come le vostre ad attirare il pubblico?

Langenegger : Il nostro museo è stato fondato nel 1956 con il preciso impegno, stabilito per statuto, di tener conto del passato, del presente e del futuro: un principio che cerchiamo di seguire quando allestiamo le nostre mostre speciali, sempre accompagnate da manifestazioni di contorno. Abbiamo organizzato mostre sul canto nella Bassa Engadina, sulla Ferrovia Retica, sulla cultura edilizia della regione, sull'architetto Rudolf Olgiati. Con queste iniziative vogliamo creare un effetto duraturo e un valore aggiunto. Ad esempio, grazie alla mostra su Olgiati, si è formata una comunità di proprietari edilizi che ha dato il via a una campagna per mettere le proprie case sotto protezione. Attualmente abbiamo i corso una mostra di fotografie di grande formato del noto fotografo svizzero Peter Ammon, che ha immortalato la vita rurale della Bassa Engadina proprio nell'anno in cui è stato fondato il nostro museo.

Joël : Proponiamo ogni anno una nuova mostra. Il nostro pubblico è costituito soprattutto dai proprietari di seconde case sparse nella valle, che tornano sempre per vedere cosa c'è di nuovo. Quest'anno stiamo guardando al passato, ma abbiamo anche avuto una mostra intitolata «futur» sull'arte moderna e sperimentale. Abbiamo invitato gli artisti a creare nuove opere insieme ai locali. Cerchiamo sempre di motivare la gente della valle a partecipare in prima persona, incoraggiandoli a liberarsi dalla remora di entrare nel museo. Vogliamo essere una casa per tutti, in primo luogo per le persone di qui. L'esposizione del 2017 è stata un successo: abbiamo chiesto a tutti di portare una pietra e raccontare ciò che significava per lui o per lei. Poi abbiamo esposto le pietre insieme alla storia che le accompagnava. Un centinaio di persone ha partecipato all’evento, portando una pietra e venendo a vederla con la famiglia. L’iniziativa ci ha attirato molte simpatie.

Quali sfide devono affrontare le istituzioni culturali nelle regioni di montagna?

Langenegger : Ce ne sono di vario tipo. Una di queste è la professionalizzazione. Il mio predecessore ha presieduto il museo per più di trent’anni e passava circa quattro giorni e mezzo all'anno a lavorarci. Io almeno lavoro quattro giorni e mezzo in un mese. Se vogliamo avere una possibilità e allestire mostre significative, dobbiamo diventare più professionali. Quattro anni fa siamo stati classificati «museo d'importanza regionale» e ora riceviamo sovvenzioni dal Cantone dei Grigioni. Secondo gli statuti, però, il nostro lavoro è su base volontaria, il che significa che il consiglio direttivo non ha alcuna remunerazione. Ecco, la grande scommessa è trovare persone che si assumano oneri volontari, ma anche convincere la popolazione locale dell'importanza della cultura per l'identità della regione. Essendo un'associazione, dobbiamo mantenere noi stessi l'edificio e fare investimenti.

Joël : Affrontiamo sfide simili. La professionalizzazione è davvero una grande questione. Ho cominciato nel 2014 con la costruzione di Casa d'Angel. All’inizio avevo un carico di lavoro del 30%, oggi è del 60%, e ho anche una segretaria e un collaboratore a progetto a tempo parziale. Anche il finanziamento è una sfida. Per fortuna, ora abbiamo buoni accordi per quanto riguarda i servizi e giuste condizioni con il proprietario dell'edificio, il comune. Ma non è facile trovare persone che aiutino a supervisionare o a preparare gli eventi. L'estate scorsa avevamo quasi troppi partecipanti: la casa era troppo piccola e potevamo ammettere solo dieci persone alla volta. Ma questo in fondo è un lusso.

La digitalizzazione sta diventando sempre più importante. Quanto è digitale la vostra offerta?

Langenegger : Per noi si tratta di un investimento troppo grande. Ma la digitalizzazione è ovviamente un problema. Il nostro inventario funziona in modo digitale, il nostro sistema di cassa pure e naturalmente abbiamo un sito web. Nel consiglio abbiamo affrontato la questione della digitalizzazione e vogliamo certamente partecipare alla piattaforma culturale cantonale. Abbiamo anche una sala multimediale, ma non vogliamo introdurre le audioguide, perché intendiamo mantenere il contatto personale. Un visita guidata in presenza è diversa da un'audioguida. La gente lo apprezza ed è per questo che rimaniamo analogici.

Joël : Sì, la penso come Peter. Da un lato, io stessa non sono una grande fan delle audioguide. Il contatto interpersonale è importante. Il personale del museo è formato da locali, che sanno tutto del posto e possono anche fungere da «ufficio turistico». Il nostro pubblico apprezza l'esperienza individuale e torna volentieri. Inoltre, organizzando una mostra l'anno, sarebbe troppo costoso realizzare ogni volta una nuova audioguida. Siamo una piccola istituzione e dobbiamo concentrarci sui nostri punti di forza.

Autore : Fadrina Hofmann

Il mondo attende la sua nuova meraviglia

Il Grand Egyptian Museum nei pressi del Cairo presenterà per la prima volta tutti i 5398 oggetti della tomba di Tutankhamon – e non solo.

L’arrivo di una nuova ondata di egittomania globale è ormai imminente ed è probabile che batta le precedenti. L’occasione è il completamento del Grand Egyptian Museum (GEM), un gioiello all'altezza della meraviglia del mondo di fronte alla quale è stato costruito, le Grandi Piramidi di Giza vicino al Cairo. L'edificio si estende nello spazio e nel tempo: su una superficie di 100.000 metri quadrati racchiude circa 50.000 oggetti che illustrano oltre 3000 anni di storia. Quando verrà inaugurato, sarà il più grande museo archeologico del mondo dedicato a una sola civiltà: l'antico Egitto.

Il padrone di casa è Tutankhamon. Nel 2022 saranno passati 100 anni da quando Howard Carter scoprì la sua tomba riccamente allestita nell'Alto Egitto. Da allora, la maschera mortuaria del faraone ha fatto diverse volte il giro del mondo, diventando un oggetto di culto paragonabile alla Gioconda. Tuttavia, molti altri oggetti appartenenti al corredo funebre non sono mai usciti dai depositi del vecchio Museo Egizio sulla piazza Tahrir, al Cairo, per mancanza di spazio. Ora tutti questi reperti, dai carri ai frammenti, verranno presentati per la prima volta insieme. Secondo l'eminente archeologo Zahi Hawass, gli oggetti provenienti dalla tomba di Tutankhamon sono esattamente 5398, ma come tutte le cifre relative al nuovo progetto anche questa cambia a seconda del momento e della persona che fornisce le informazioni. Nel laboratorio costruito proprio accanto al museo, ogni pezzo è stato restaurato seguendo i parametri della ricerca più avanzata.

Una scorta di biancheria intima per cambiarsi nell‘aldilà 

La sala principale del museo è così vasta che potrebbe contenere degli aerei. All'ingresso, la statua in granito di Ramses II, alta undici metri, accoglie i visitatori che subito dopo percorreranno una scala monumentale per accedere agli spazi in cui si trovano le altre sculture colossali. È il contesto ideale per esporre simili opere, afferma l'egittologo Tarek Tawfik, direttore generale del GEM fino a poco tempo fa e tuttora membro del comitato consultivo del museo, perché il pubblico «può immaginarne l’effetto quando erano collocate nei templi o all'aria aperta». Le statue possono essere viste da tutti i lati, anche dall'alto, grazie a un ponte di vetro sospeso. Vi è perfino un obelisco appeso a una corda in modo da poter vedere il nome di Ramses sul lato inferiore, per la prima volta in 3300 anni!

Arrivati in cima, girando a destra si arriva direttamente a Tutankhamon. Cosa c'è di nuovo da scoprire su di lui? «Gli abiti!», risponde prontamente Tarek Tawfik, che nel vecchio museo non erano esposti in maniera adeguata. «Questa stoffa si trovava sul suo corpo: così il pubblico può avvicinarsi a lui come mai prima d'ora, anche attraverso i suoi vestiti. I sandali d'oro del faraone sono ugualmente impressionanti. Erano in pessime condizioni e sono stati restaurati secondo i più alti standard mondiali». Non si può dire che 3324 anni fa il faraone non abbia ricevuto un guardaroba adeguato. Di certo non ha bisogno di star lì a fare continuamente lavatrici, visto che ha ben 300 paia di mutande stipate nella valigia per l'aldilà!

Secondo Tarek Tawfik, questo patrimonio culturale dell'umanità è finalmente al sicuro sotto ogni aspetto: dal vandalismo, dal furto e dalle ingiurie del tempo. Tutti gli oggetti – 25.000 in mostra e 25.000 in deposito – saranno ora conservati e, se necessario, restaurati. Inoltre, il museo ha ancora spazio per il doppio dei reperti attuali, spiega Tawfik. Dato il ritmo con cui negli ultimi anni sono avvenuti i nuovi ritrovamenti, questa disponibilità sembra quanto mai opportuna.

L’orgoglio nazionale è più forte della fame

Nel gennaio 2002, l'allora presidente Husni Mubarak pose la prima pietra. Nove anni dopo è scoppiata la rivoluzione, e ora il Coronavirus. I tempi di costruzione e i costi inizialmente stimati sono raddoppiati, arrivando a 1,1 miliardi di dollari, come ci informa Tarek Tawfik. E questo nonostante il fatto che la chilometrica facciata principale in pietra onice traslucida progettata dallo studio irlandese Heneghan Peng abbia fatto posto ad una più economica versione in vetro.

Un costo enorme, soprattutto per un paese in cui un buon terzo dei 100 milioni di abitanti vive sotto la soglia di povertà. Ma il progetto, a differenza di molti altri, non è mai stato criticato pubblicamente, dice Tawfik. Al contrario: durante i disordini in piazza Tahrir, si formarono vere e proprie catene umane a protezione del vecchio museo. Con la primavera araba è sbocciato anche l'interesse per questi antichi tesori. «La gente ora vuole vedere e capire ciò che ha salvato», sostiene Tawfik, «ha capito che è qualcosa di speciale, una caratteristica unica dell'Egitto». Da quel momento, afferma, i principali musei egiziani hanno registrato un numero maggiore di visitatori locali.

L'orgoglio nazionale è più forte della fame, più potente della fede. Anche gli egiziani più devoti capiscono che queste sono le loro radici, dice Tawfik, e non considerano quegli artefatti pagani come qualcosa che può corrompere la loro fede. Anche i più poveri sono orgogliosi del loro patrimonio e sperano che possa essere messo a frutto. Il Grand Egyptian Museum aspetta cinque milioni di visitatori l'anno e dovrebbe dare impulso al turismo in tutto il paese. Tarek Tawfik crede che la pandemia stia attualmente rafforzando il desiderio di viaggiare. E il nuovo vicino aeroporto di Sphinx dovrebbe facilitare l'accesso al museo.

L‘allestimento: semplice, divertente, rispettoso

«Gli egiziani vogliono che il loro patrimonio nazionale sia trattato con il giusto rispetto». Questa è l'impressione di Shirin Brückner, responsabile dell'allestimento della mostra con il suo omonimo atelier di Stoccarda. Il suo obiettivo, dice, è quello di rendere gli oggetti accessibili a un vasto pubblico in modo semplice, divertente e rispettoso. Gli oggetti sono esposti in modo tale da raccontare una storia. Nel caso di Tutankhamon, il viaggio dalla nascita attraverso la sua breve esistenza fino alla ben più importante (ed eterna) vita dopo la morte, sempre verso il sole: «La caratteristica essenziale del progetto è la luce». Gli esperti scenografi hanno usato una copia in scala reale della tomba per far capire al pubblico che i 5398 cose ora sparsi su una superficie di 7000 metri quadrati erano originariamente accatastati gli uni sugli altri in uno stretto nascondiglio di 30 metri quadrati.

Shirin Brückner, classe 1967, stava ancora studiando quando fu bandito il concorso di architettura per il Grand Egyptian Museum. «Non mi sarei mai sognata di avere la possibilità di esporre un giorno contenuti e reperti di tale importanza. Contribuire a creare un museo mondiale è un'opportunità unica nella vita». Brückner si dice grata di essere coinvolta in questo progetto epocale, anche se vorrebbe vedere «progetti mondiali – anche meno faraonici di questo – realizzati più rapidamente».

Questa propensione all'eccesso è sempre stata una caratteristica dell’Egitto. Tuttavia, il museo stabilisce anche un record per quanto riguarda i numerosi rinvii dell’inaugurazione. Anche l'ultima data, prevista per quest'estate, verrà annullata; ora si parla della fine di quest'anno o dell'inizio del prossimo. Tawfik spera nella seconda eventualità: «Così coinciderà con l'anniversario dei 100 anni dalla scoperta della tomba di Tutankhamon». Nel frattempo, la pressione aumenta. «Tutto il mondo è in attesa di questo museo», dice Tarek Tawfik e conclude: «La gente vuol vedere quello che l'Egitto ha costruito negli ultimi venti anni ed è ansiosa di scoprire questi tesori mai visti».

Autore : Susanna Petrin, giornalista

Diversità e inclusione nei musei svizzeri

La società evolve e i musei devono tenere il passo: piccole ispirazioni per rendere la cultura più rappresentativa e le istituzioni più accessibili.

Immaginate di entrare in una sala piena di oggetti in esposizione e di non riconoscere in nessuno degli artisti una persona come voi. O semplicemente di non poter cogliere la bellezza delle opere che vi circondano. Come vi sentireste?

«I musei devono affrontare la sfida della responsabilità sociale, che è diventata sempre più complessa», afferma Seraina Rohrer, responsabile del settore Innovazione & Società di Pro Helvetia. «Devono rivolgersi alla società intera, non soltanto ad una parte di essa». Eppure un’inchiesta realizzata nel giugno 2019 dal portale SWI swissinfo.ch e dalla RTS (Radio Télévision Suisse) ha rivelato che solo un quarto delle mostre temporanee programmate tra il 2008 e il 2018 nei musei d’arte era stato dedicato ad artiste donne. E secondo il sito web dell'Associazione dei musei svizzeri soltanto il 35% dei musei è completamente accessibile alle sedie a rotelle.

Se da un lato queste cifre possono in parte essere spiegate dall'esclusione storica delle donne dal mondo dell’arte, e dall’antichità degli edifici che spesso ospitano i musei, dall’altro rimane tuttavia il fatto che quanto a diversità e inclusione il potenziale è ben lontano dall'essere raggiunto. Oltre al genere e alla disabilità, anche i vari percorsi migratori e le diverse realtà sociali meritano considerazione, sia a livello delle mostre che del personale dell'istituzione museale.

I musei, un tempo accessibili solo ad una cerchia ristretta di intellettuali, oggi aprono le porte a tutte e tutti. «Il museo dovrebbe essere un forum, un luogo di scambio sociale, in cui le persone si incontrano e condividono le riflessioni sul passato, il presente e il futuro», afferma Katrin Rieder, co-direttrice del progetto Multaka, che si adopera per l’inclusione dei percorsi migratori nei musei.

Percorsi diversi, sguardi nuovi 

Lanciato nel 2019 al Museo di storia di Berna, il progetto Multaka ha formato dieci migranti per farli diventare mediatori d'arte. «Abbiamo scelto persone che vivevano in Svizzera da meno di cinque anni e che avevano una buona conoscenza del tedesco», spiega Katrin Rieder. «Volevamo anche una buona eterogeneità di nazionalità, età e genere». Così Syam, Halima e Farhad accompagnano il pubblico da una sala all'altra, proponendo parallelismi tra gli oggetti esposti e le loro esperienze di rifugiati. Oggi le guide formate da Multaka sono ufficialmente impiegate del Museo di storia.

L'obiettivo di questa associazione – che fa parte di una rete internazionale attiva in Italia, Germania e Regno Unito – è soprattutto quello di sostenere un cambiamento duraturo a livello istituzionale. «Un progetto può essere interrotto in qualsiasi momento: è più importante pensare a sviluppare una strategia a lungo termine che coinvolga l'intero museo», sottolinea Katrin Rieder. Il Museo della comunicazione di Berna partecipa attualmente alla seconda fase del progetto: lo sviluppo di una strategia della diversità che riguardi le mostre, le collezioni permanenti, la comunicazione e il personale del museo.

Oltre a tener conto della diversità sociale nelle mostre e nella composizione del personale, inclusione significa anche una migliore accessibilità del museo stesso. Cultura, l'associazione mantello delle associazioni di categoria che rappresentano le istituzioni culturali svizzere, sottolinea che «i prezzi alti del biglietto d'ingresso sono un grande ostacolo alla partecipazione culturale dei rifugiati e dei richiedenti asilo». Perché poi non pensare a programmi di mediazione specifici, come «La via delle spezie» offerto dal Museo Vincenzo Vela in Ticino? Qui, i richiedenti asilo minori non accompagnati possono creare il proprio erbario imparando nuove parole in un ambiente dedicato alla condivisione e all'integrazione.

Il valore aggiunto dell’inclusione 

L'accessibilità dei musei è una questione chiave anche per le persone con disabilità. «La Svizzera ha firmato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, che tuttavia rimane ancora poco applicata», spiega Nicole Grieve, responsabile romanda del servizio Cultura Inclusiva di Pro Infirmis. «Questa convenzione delle Nazioni Unite afferma che tutti hanno diritto all'inclusione e alla partecipazione, indipendentemente dalle capacità e dalle limitazioni e senza barriere imposte dalla società».

Lanciato come progetto pilota nel 2014, Cultura Inclusiva sostiene e accompagna le istituzioni culturali che si impegnano a promuovere l'inclusione delle persone con disabilità. «Quando veniamo contattati identifichiamo insieme all’istituzione culturale le misure più adeguate, che verranno poi implementate e consolidate» spiega Nicole Grieve. Le istituzioni ricevono un marchio che attesta il loro impegno per una migliore inclusione in cinque ambiti: offerta culturale, accesso ai contenuti, barriere architettoniche, offerte di lavoro e comunicazione.

Oggi il marchio Cultura Inclusiva conta 77 partner. Affinché la qualità prevalga sulla quantità, il servizio Cultura Inclusiva punta alla creazione di collaborazioni durature. «Innanzitutto bisogna creare dei legami tra l'istituzione culturale e le reti delle persone con disabilità presenti nella città o nella regione», sottolinea Grieve. «Infatti soltanto lavorando insieme alle persone interessate sarà possibile sviluppare una strategia adeguata».

Oltre al valore aggiunto creato a livello sociale dall'inclusione di nuove prospettive e sensibilità, le soluzioni pensate per i visitatori con disabilità possono anche suscitare la curiosità di tutto il pubblico. Avvicinarsi alle opere esposte usando i sensi che non sono normalmente adoperati offre un’esperienza culturale del tutto inedita.

Il museo come specchio dei tempi

Secondo la definizione dell'International Council of Museums, i musei sono «istituzioni senza scopo di lucro al servizio della società e del suo sviluppo». È quindi naturale permettere all’intera società di avervi accesso e di sentirsene parte. Con questo spirito Pro Helvetia ha organizzato il primo workshop «Start Diversità»: due giorni di corsi di formazione che affronteranno la questione della rappresentanza dei generi ma non solo.

«Negli ultimi anni con l'esperienza dei Tandem, durante i quali vari esperti consigliavano un'istituzione durante un processo di cambiamento strutturale, ci siamo resi conto che la questione della diversità è molto complessa e necessita un accompagnamento mirato», spiega Seraina Rohrer di Pro Helvetia. Il workshop è rivolto alle istituzioni che stanno iniziando a riflettere sull’argomento e hanno bisogno di una mano per far decollare le loro strategie.

Per la società del futuro

Le recenti denunce di sessismo e discriminazione razziale hanno coinvolto tutti i settori, compreso quello culturale, anche oltre i confini della Svizzera. A gennaio, il Museo di belle arti del Canada ha creato due posti di lavoro per promuovere la diversità: una vicepresidente della trasformazione strategica e dell'inclusione, e una vicepresidente senior per le persone, la cultura e l’appartenenza. In Inghilterra, gli eventi annuali nel quadro dei programmi «Diversity Matters» mostrano le migliori pratiche in materia di integrazione della diversità all'interno dei musei.

La riflessione, così come il cambiamento, richiedono mezzi e soprattutto tempo. Tuttavia, come scrive la rete delle organizzazioni museali europee, «se il ‘museo per tutti’ resta un sogno utopico, il ‘museo per il maggior numero di persone possibile’ dovrebbe diventare una realtà». Infatti i musei sono certamente una finestra sul passato, ma anche, e forse soprattutto, una porta sul futuro: da qui l'importanza di includere le diverse sfaccettature della società da entrambi i lati del cordoncino rosso.

Autore : Céline Stegmüller, giornalista

Le buone intenzioni non sono sufficienti

Secondo Ivana Pilić, i musei offrono un terreno ideale per ridefinire i concetti di partecipazione culturale e democrazia. Curatrice freelance e scienziata della cultura, Pilić conduce seminari sulla diversità nelle istituzioni culturali per conto della Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia.

Ivana Pilić ist Co-Kuratorin von «D/Arts – Projektbüro für Diversität und urbanen Dialog» und promoviert im Schwerpunkt Wissenschaft und Kunst an der Universität Salzburg und des Mozarteums zu diskriminierungskritischen Kunstpraxen. Die Kulturwissenschaftlerin berät Kulturinstitutionen und -politik im Bereich Diversity and Arts. Unter anderem leitet sie im Rahmen von Projekten der Schweizer Kulturstiftung Pro Helvetia Workshops zu dem Thema. Im März 2021 hat sie gemeinsam mit Anne Wiederhold die zweite Auflage des Buchs «Kunstpraxis in der Migrationsgesellschaft» herausgegeben. Im Interview erklärt sie, welche spezifischen Herausforderungen sich für Museen stellen.

Katharina Flieger : Signora Pilić, lei collabora con le istituzioni culturali occupandosi in particolare di diversità e pari opportunità. Le imprese culturali sono più sensibili a questo riguardo rispetto alle aziende di altri settori?

Ivana Pilić : La scena culturale ha un respiro internazionale, e questo è un buon punto di partenza. Ma le istituzioni culturali non devono concentrarsi solo sui produttori di cultura a livello internazionale: anche l'eterogeneità della popolazione locale dovrebbe riflettersi nell'istituzione – nei suoi programmi, nei suoi collaboratori e nel suo pubblico.

KF : Il termine «diversity», spesso tradotto con varietà, molteplicità, non significa la stessa cosa ovunque. Cosa intende lei per diversità?

IP : Uso un concetto critico di diversità. Ciò significa non limitarsi a considerarla semplicemente un arricchimento, ma osservare le strutture discriminatorie all’interno delle istituzioni stesse e non concentrarsi esclusivamente sulla diversità legata alla migrazione, ma includere altre categorie. Spesso si parla di persone che provengono da altri ambienti sociali, ma alla fine tutto viene ricondotto alla migrazione. Naturalmente le categorie si sovrappongono, ma a livello superficiale – anche se non volutamente – si va subito alla ricerca dell’ «Altro in quanto migrante».

KF : Perché accade tutto questo?

IP : Perché non si riflette abbastanza attentamente su quale gruppo specifico ci stiamo concentrando e su che cosa questo comporta. Adottando il punto di vista della maggioranza sociale, si finisce per ragionare a compartimenti stagni. Se, ad esempio, si pensa alla comunità turca, spesso la si associa con un gruppo poco acculturato, dimenticando che tra i turchi vi sono anche artisti e accademici. Sarebbe più proficuo esaminare quali discriminazioni esistono nei confronti dei diversi gruppi sociali. Infatti, più riusciamo a comprendere la natura della discriminazione, più è facile sviluppare le misure atte a contrastarla. C’è bisogno di un'attenta analisi. Innanzitutto bisogna osservare: chi vive nella mia città, chi è il fulcro del mio interesse? Recentemente si è fatto un gran parlare dei progetti con i rifugiati. Tuttavia, spesso le istituzioni culturali si presentano come organizzazioni che favoriscono la diversità, senza guardare alle strutture discriminatorie che hanno al loro interno. Questo si traduce in progetti a foglia di fico o in innovazioni di facciata, che indeboliscono il concetto di diversità e svalutano l'obiettivo reale: promuovere una maggiore partecipazione alla produzione di significato culturale da parte di diversi gruppi della popolazione.

KF : Cosa significa questo per i musei?

IP : I musei hanno un ruolo speciale, perché sono i luoghi in cui si può creare una storiografia sociale. Ma possono anche essere intesi come un terreno utile a favorire la partecipazione culturale o a ridefinire la democrazia. La sfera culturale offre opportunità di sperimentare e collaudare un nuovo «noi». Qui abbiamo la libertà di dire: «Questa è la nostra società e questo è l'aspetto che potrebbe avere». Credo che gli approcci artistici in particolare possano contribuire alla creazione di una società più diversificata. I musei potrebbero diventare gli antesignani di un modello di multilinguismo, varietà e diversità. Allo stesso tempo, però, il settore culturale è un'area molto omogenea ed elitaria e questo è un aspetto che deve essere affrontato e modificato.

KF : Cosa servirebbe loro per svolgere questo ruolo?

IP : I musei hanno spesso progetti temporanei, ma il punto è cosa succede dopo. Come mantenere il gruppo dei destinatari, come garantire loro uno spazio accessibile? Per cambiare le cose in maniera lungimirante, occorre osservare la propria istituzione ed esaminarne le risorse. Nel fare ciò, è importante ammettere apertamente di non avere al proprio interno le competenze necessarie e dunque l’esigenza di rivolgersi ad esperti di quella particolare tematica o a persone in possesso di altre competenze linguistiche, ad esempio. Poi si possono pianificare i progetti e le misure adatte. Le buone intenzioni non sono sufficienti. Nel nostro lavoro è importante adottare un approccio trasformativo: cambiare strutturalmente, non smettere mai di imparare, sperimentare. Tutto questo richiede tempo.

Autore : Katharina Flieger, caporedattrice della Rivista svizzera dei musei