Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 15

Il quindicesimo numero della «Rivista svizzera dei musei» è dedicato al tema della digitalizzazione. Inoltre, vengono presentati due interessanti progetti museali: «Plateforme 10» e il «War Childhood Museum».

Rivista svizzera dei musei 15

A proposito

La Rivista svizzera de imusei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Tre musei, tre storie, un marchio

Con Bernard Fibicher, Tatyana Franck e Chantal Prod'Hom entriamo dietro le quinte di Platforme 10.

Il 5 ottobre 2019 il Musée cantonal des Beaux-Arts (MCBA) di Losanna ha inaugurato la sua nuova sede nell’edificio progettato dallo studio di architettura Barozzi Veiga, sul sito degli ex depositi di locomotive delle ferrovie FFS, un «quartiere» oggi chiamato Plateforme 10. Alla fine del 2021, quest’area di 22.000 m2 accoglierà anche il Musée de l'Elysée e il mudac - Museo del design e delle arti applicate contemporanee in un nuovo edificio progettato dallo studio Aires Mateus, la cui inaugurazione è prevista per la prima metà del 2022. Abbiamo riunito virtualmente (COVID-19 ...) i tre direttori Bernard Fibicher del MCBA, Tatyana Franck del Musée de l'Elysée e Chantal Prod'Hom del mudac per parlare di questo magnifico progetto di «art district» e per analizzare le sfide e i problemi legati al trasferimento delle rispettive istituzioni in questo luogo. Il MCBA si è già spostato, gli altri due musei lo faranno presto.

Bernard Fibicher, quali sono le criticità che ha dovuto affrontare il MCBA in questo passaggio?

Bernard Fibicher : A mio parere le sfide sono state soprattutto due. Effettuare il trasloco nelle condizioni ideali per far arrivare le opere in perfette condizioni nei depositi del nuovo museo e spostare la collezione per intero. Era assolutamente indispensabile poter disporre di un inventario. Ecco perché abbiamo chiuso il museo per un anno e redatto un inventario completo di ogni singolo oggetto, compresi quelli conservati in vari spazi del Cantone di Vaud. Abbiamo ripercorso l’intera collezione (11.000 pezzi), avviando una campagna fotografica che è quasi completa nonché un piano di restauro e di cura delle cornici. È stata un’impresa enorme durata un anno e mezzo, un meticoloso lavoro di preparazione che ha coinvolto non soltanto i curatori, ma anche registrar e tecnici.

E per quanto riguarda voi, Tatyana Franck e Chantal Prod'Hom? Quali sfide dovranno affrontare le vostre istituzioni?

Tatyana Franck : I problemi di un museo della fotografia sono molto diversi da quelli di una galleria di belle arti o di design. Il nostro patrimonio è piuttosto corposo, infatti gestiamo fondi fotografici completi (non solo stampe, ma anche negativi, album, corrispondenza) per un totale di circa centomila pezzi. Oggi, dopo trentacinque anni, abbiamo l’eccezionale opportunità di avviare un processo di riassetto delle collezioni che non terminerà con la riapertura del museo. Dobbiamo inventariare, catalogare e digitalizzare. Abbiamo iniziato nel maggio 2019, poi abbiamo chiuso i battenti e riapriremo nel gennaio 2023. Le problematiche sono molto diverse da un museo all'altro.

Chantal Prod'Hom : Noi ci confrontiamo spesso sulle nostre problematiche, ma non abbiamo un’unica ricetta valida per tutte e tre le istituzioni. A differenza del MCBA e dell’Elysée, le nostre collezioni comprendono un ridotto numero di pezzi, circa tremila. Dal 2000 a oggi ci siamo dedicati soprattutto alle mostre temporanee – una media di 5,8 l'anno – e alle creazioni contemporanee. Dal punto di vista del trasloco, nel caso di un museo del design è la varietà delle collezioni l’aspetto più complesso: abbiamo oggetti tridimensionali in materiali e formati di ogni tipo. Quindi il problema del mudac è la gestione dei volumi e la vera sfida sarà imballare le opere in vetro. In questi ultimi anni abbiamo anche ultimato l'inventario, mentre la campagna fotografica e la ricognizione devono ancora essere terminate. Inoltre è essenziale rendere partecipe il pubblico del lavoro svolto durante la chiusura del museo. Spiegare cosa accade dietro le quinte, come ha fatto molto bene Bernard Fibicher con i video pubblicati sul sito web del MCBA.

Bernard Fibicher, l'esperienza del vostro trasferimento è molto utile per le sue due colleghe. Quali consigli sente di poter dare?

BF : Sì, è così. Ci incontriamo con cadenza regolare e abbiamo ospitato le équipe dell’Elysée e del Mudac nei nostri depositi. La difficoltà principale è riuscire a stabilizzare il microclima, infatti abbiamo notato che ci vuole almeno un anno per raggiungere una stabilità termica e igrometrica. Per opere ancora più delicate come le fotografie, il tempo necessario sarà addirittura più lungo. Ho anche richiamato l'attenzione delle mie due colleghe sui tempi di realizzazione delle infrastrutture e sull'importanza di lavorare a monte con tutti gli specialisti, per non avere sorprese.

TF : È un gran vantaggio poter contare sui preziosi consigli di Bernard e beneficiare della sua esperienza. Grazie Bernard!

CP : Ci siamo riuniti spesso, in particolare c’è stato un incontro tra i tecnici di Bernard Fibicher e i nostri per capire cosa è andato bene e cosa non ha funzionato. Abbiamo ancora la possibilità di correggere il tiro.

Anche lei, Bernard Fibicher, ha potuto avvalersi della consulenza di qualche esperto? Ad esempio di Dieter Bogner, che ha ideato il MuseumsQuartier di Vienna.

BF : In effetti Dieter Bogner è stato di grande aiuto per la ripartizione delle varie funzioni all’interno del museo. Per fare un semplice esempio, in un giorno di pioggia, dove mettere gli ombrelli dei visitatori! Dieter sa bene come funziona un museo, ma non è uno specialista in depositi di opere d’arte né in conservazione.

Sulla questione della conservazione preventiva avete ricevuto qualche consiglio?

BF : Abbiamo lavorato principalmente con esperti nel campo delle infrastrutture, come lo specialista Joachim Huber dell’azienda Prevart, uno dei pochi, credo, in Svizzera.

TF : Sì, come ha detto Bernard Fibicher, gli specialisti sono pochi. Per questo motivo è stata creata un'unità di conservazione preventiva e di restauro all'interno dell'istituzione. Negli ultimi sei anni, l’Elysée ha assunto uno specialista in questo campo. La nostra intenzione è quella di diventare un importante centro di competenza, visto il patrimonio che dobbiamo gestire.

BF : Per noi lo scambio di informazioni con i musei che hanno vissuto la stessa esperienza è stato fondamentale. Per questo abbiamo assunto il restauratore che nel 2003 si è occupato dell’ampliamento del museo di Aarau nel nuovo edificio di Herzog & de Meuron. Anche lui era in contatto con i colleghi di Basilea, Zurigo e Ginevra, perché lo scambio di informazioni tra specialisti e tra colleghi ha un valore inestimabile.

Riunire le vostre tre istituzioni nello stesso luogo incrementerà la collaborazione su grandi progetti?

TF : Quello che stiamo creando con Plateforme 10 è unico. Il punto di forza di questo progetto è che siamo tre musei molto specializzati ma i nostri temi sono complementari, quindi abbiamo la possibilità di collaborare. Intendiamo organizzare con frequenza regolare mostre tematiche o monografiche comuni, sulle quali rifletteremo insieme in modo da valutare e sviluppare il punto di vista di ciascuno. Nel giugno 2022, Plateforme 10 si aprirà con una mostra comune a tutte e tre le istituzioni.

CP : Sì, è la nostra particolarità e la nostra forza: tre istituzioni, tre tipi di storie, tre collezioni molto diverse. Il pubblico capirà perché è interessante per noi convivere sullo stesso sito. Le nostre discipline sono complementari.

BF : Il potenziale è enorme, sia in termini di scambio di servizi che di competenze.

TF : Si moltiplicheranno le sinergie. Ad esempio, nell'edificio che ospiterà l’Elysée e il mudac ci sarà una biblioteca, un centro di documentazione con consultazione in loco. Il Musée de l'Elysée possiede una vasta collezione di libri di fotografia e un certo numero di libri-oggetto. La complementarietà con un museo del design è estremamente stimolante, poiché esistono diverse case editrici che creano libri d'arte frutto della collaborazione tra fotografo, designer e scrittore. Questi oggetti saranno esposti insieme ai modelli dei libri originali per illustrare il processo creativo dell'artista. Nell’atrio avremo anche un punto di ristoro in comune con il mudac, e qui il dialogo tra design e fotografia si farà davvero interessante. Sono quindi possibili molte sinergie, non solo in termini di programmazione ma anche di scambio di competenze tra i diversi team.

CP : Per cinque anni abbiamo lavorato fianco a fianco alle riunioni del consiglio di amministrazione che ho presieduto. Il mio mandato si è concluso a febbraio e ora le nostre squadre, ognuna con le proprie specificità, si riuniscono in gruppi di lavoro sulla comunicazione, la mediazione, l'amministrazione e la conservazione.

Cosa mi dite del pubblico?

TF : L'artista da un lato e il pubblico dall’altro sono al centro delle nostre preoccupazioni quotidiane. Riguardo al pubblico, l'idea è quella di proporre un tour che inizierà al MCBA – probabilmente sarà fruibile prima degli altri – e proseguirà all'Elysée e al mudac, con un'offerta concertata e complementare. Nel grande spazio antistante l’edificio proporremo eventi all'aperto. Ci sarà sempre qualcosa da vedere e da scoprire!

BF : Sono previste anche agevolazioni per i visitatori, con una biglietteria comune e un prezzo unico per la visita dei tre musei. Il pubblico locale verrà a vedere una particolare mostra in uno dei musei, mentre chi viene da lontano potrà visitarli tutti. Sarà un polo di attrazione unico in tutta la Svizzera.

Esistono altri luoghi simili in Svizzera? Penso ad esempio al LAC di Lugano, inaugurato nel 2015.

CP : L’aspetto più interessante del LAC di Lugano è l'uso degli spazi pubblici. Michel Gagnon ha saputo rivitalizzare quest’area e possiamo trarne una grande lezione.

E in Europa? Che dire del MuseumsQuartier creato a Vienna negli anni Novanta?

BF : Il MuseumsQuartier di Vienna è molto diverso. Il marchio è unico – «MQ» – ma i tre musei non hanno mai lavorato insieme, anche se si trovano sullo stesso sito.

E in Asia esistono iniziative simili?

TF : No, da nessun’altra parte esiste la stessa sinergia fra tre musei, uniti dal desiderio di un progetto pensato in comune.

CP : Come dice Tatyana Franck, nel mondo non esiste alcuna entità unica creata a più mani, se si escludono le iniziative individuali e private. Noi tre, invece, vogliamo mantenere la nostra identità, il nostro logo, il nostro know-how e anche le nostre differenze. Vogliamo offrire una programmazione ricca e complementare. Sarà interessante vedere come l’identità di Plateforme 10 si formerà nel tempo, tenendo conto delle forti specificità di ciascuna istituzione. Un quartiere delle arti che si sta costruendo da zero, tutto dedicato alla cultura e all’arte, è un progetto molto innovativo!

Autore : Laure Eynard, storiografa e storica dell'arte

Una collezione contro il trauma

Il War Childhood Museum di Sarajevo dimostra che un museo può fare molto di più che esporre il passato.

Un museo è un luogo in cui vengono esposti oggetti che altrimenti rischierebbero di cadere nell’oblio, uno spazio che offre la possibilità di viaggiare in mondi diversi dal nostro e di conoscere culture perdute o lontane.

Ma il museo può anche essere un luogo dove le cose vengono conservate per mantenere viva la memoria: a questo scopo non esiste ambiente più adatto. Il War Childhood Museum di Sarajevo rientra in questa tipologia perché conserva le memorie tangibili di coloro che, da bambini, hanno sperimentato il conflitto che ha dilaniato la Bosnia tra il 1992 e il 1995. Tramite questi oggetti, i sopravvissuti condividono le loro storie personali e le esperienze di un'infanzia trascorsa durante la guerra. Si tratta del primo museo al mondo dedicato esclusivamente alle esperienze di guerra dei bambini, permettendo loro di raccontarle dal proprio punto di vista.

Questi ricordi d’infanzia sono collocati in una struttura moderna, tranquilla e silenziosa. Gli oggetti sono poggiati su supporti bianchi o appesi a fili sottili attaccati al soffitto. Un vestito da ballo, una chitarra, un orsacchiotto cucito a mano, il libro preferito, barattoli di cibo distribuiti durante i soccorsi umanitari, un diario con dei disegni, un paio di scarpette da ballerina. La collezione contiene oltre 4.000 oggetti e più di 150 ore di materiale video documentano la vita quotidiana durante la guerra. I bambini di allora parlano di violenza, morte, fame, paura, ma anche delle marachelle condivise con gli amichetti, degli spettacoli di danza cui hanno partecipato con orgoglio, della prima lettera d'amore che hanno scritto, delle partite di calcio, e di come i giochi all’aperto siano terminati bruscamente a causa delle granate. Ne è testimonianza un tubo che era collocato nel parco giochi: il bambino sopravvissuto all'attacco lo ha portato al museo in ricordo degli amici uccisi.

Messaggi di pace

Da allora sono passati più di vent’anni: la gente vuole guardare avanti e spesso non ama parlare di quanto è successo. Eppure, per le tante persone che soffrono ancora oggi, la guerra non è mai finita. L’idea di raccogliere i ricordi dei bambini che hanno vissuto la guerra in Bosnia si deve a Jasminko Halilovic, che voleva creare uno spazio in cui sia i proprietari di quegli oggetti sia i visitatori potessero confrontarsi con i loro traumi. Il museo come luogo d’incontro tra diverse esperienze individuali che, tutte insieme, rafforzano la coscienza collettiva e promuovono la comprensione reciproca, in una dimensione avulsa dai continui litigi – politicamente ed etnicamente connotati – sull'interpretazione del recente passato. Grazie al crowdfunding, ai finanziamenti internazionali e all’impegno di molti volontari le resistenze politiche sono state superate e nel 2017 il museo è stato inaugurato.

Nel 2018 il War Childhood Museum ha vinto il premio per i musei del Consiglio d'Europa. Le storie e gli oggetti personali costituiscono un messaggio di pace forte e incisivo, contribuiscono alla riconciliazione e rafforzano la diversità culturale, ha spiegato la giuria, che ha visto nel museo un modello per future iniziative in aree di conflitto e post-conflitto. Nel frattempo Halilovic e la sua squadra hanno ampliato i confini geografici della loro attività e oggi raccolgono i ricordi di bambini di altre zone di guerra.

Questa è la versione aggiornata di un articolo apparso sul Tagesanzeiger l'11 maggio 2018 in occasione della Giornata internazionale dei musei.

Autore : Aleksandra Hiltmann, redattrice del Tages-Anzeiger

Far ascoltare storie che non sono state mai raccontate

Bisogna essere più coraggiosi, sfruttare il potenziale: questo è ciò che sostiene Jasminko Halilovic. In questa intervista, il trentaduenne fondatore e direttore del War Childhood Museum di Sarajevo spiega la sua idea.

Jasminko Halilovic è nato nel 1988 a Sarajevo, dove ha trascorso l'infanzia e in seguito ha conseguito un master in gestione finanziaria. Nel 2012 ha pubblicato il libro Kindheit im Krieg – Sarajevo 1992-1995 (Infanzia di guerra – Sarajevo 1992-1995). L'opera, che raccoglie i ricordi di circa 1.600 persone che hanno trascorso la loro infanzia a Sarajevo durante la guerra, ha ricevuto così tanti riconoscimenti da diventare ben presto un progetto museale. Il War Childhood Museum ha inaugurato la sua prima mostra nel 2017. All'inizio di quest'anno, il fondatore e direttore Jasminko Halilovic è stato ospite della prima Giornata del marketing dei musei svizzeri organizzata a Berna nell'ambito di Cultura Suisse. Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata.

Katharina Flieger : Signor Halilovic, poco dopo la sua inaugurazione, il War Childhood Museum è stato insignito del premio del Consiglio d'Europa 2018 per i musei. Cosa significa per lei questo premio?

Jasminko Halilovic : Riconoscimenti come questo non sono molto noti a livello internazionale, non è un premio che ti fa diventare famoso come l’Oscar. Ma può essere usato nella comunicazione per procurarti maggior rispetto e più sostegni da parte delle autorità. Il premio aumenta anche la nostra credibilità presso i finanziatori, apre le porte a nuove collaborazioni: in breve, rende la vita un po' più facile. Ed è un'ulteriore conferma per il mio team della qualità e dell’importanza di ciò che facciamo qui.

KF : Durante la sua conferenza ha sollecitato un approccio imprenditoriale più forte da parte dei musei. Perché? I musei non sono aziende.

JH : Come direttore di un museo la cosa più importante che ho capito finora è che è sbagliato separare il lavoro museale dalla capacità di fare impresa. Questo perché in realtà non c'è differenza: bisogna lottare per attrarre il pubblico, bisogna competere con altre offerte di intrattenimento, come cinema o ristoranti. Non puoi stare lì seduto ad aspettare i visitatori, ma devi conquistare attivamente le persone più e più volte, migliorando costantemente te stesso nel processo. Tutto ciò è in linea col pensiero imprenditoriale. Per questo motivo sostengo la necessità di porre maggiore enfasi sull'aspetto imprenditoriale: non perché i musei diventino aziende, ma perché penso che questo possa renderli più dinamici..

KF : Cosa ci guadagneremmo?

JH : Molti musei fanno troppo poco uso delle possibilità offerte dalla tecnologia – per i siti web, le app, la mediazione o la pubblicità. A differenza di altri soggetti, utilizzano strumenti in gran parte superati. Nella nostra regione in particolare, ma anche nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti, mi imbatto ripetutamente in formati obsoleti e poco attraenti. Occorre investire più energia in questo settore, perché il potenziale è enorme!

A differenza di altre istituzioni, i musei hanno un grande vantaggio: possono fare di tutto! Hanno spazi virtuali e fisici, possono presentare qualsiasi oggetto, qualsiasi storia in formato multimediale. I musei godono della fiducia della gente, hanno la capacità di educare e intrattenere, possono persino invitare i visitatori a passare la notte da loro. Ecco perché mi addolora vedere musei in lotta per attirare il pubblico e guadagnare l'attenzione.

KF : Lei però non deve lottare per attirare l'attenzione, al contrario: il suo museo riceve supporto e sta ampliando la sua collezione.

JH : Sì, oggi lavoriamo anche in Libano, in Ucraina e con i rifugiati siriani in Serbia e in Bosnia. Apriremo un ufficio a Berlino per poterci spostare più facilmente all'interno dell'UE con la nostra mostra itinerante. Stiamo applicando diverse strategie per ampliare la nostra collezione e formiamo le persone per metterle in grado di lavorare sul campo e raccogliere oggetti. Accettiamo tutti gli oggetti che siano chiaramente rilevanti per la memoria. Il cuore della collezione sono le storie: ci serviamo degli oggetti per raccontarle.

KF : Queste storie suscitano un ampio interesse. Che tipo di collaborazioni avete instaurato?

JH : Coltiviamo la cooperazione internazionale con numerose università, con ricercatori dei più diversi campi come la psicologia, la storia, la museologia. Scrittori, fotografi e artisti si rivolgono a noi proponendo le loro iniziative. Per noi è importante che i materiali raccolti possano essere utilizzati in modi diversi. Per questo motivo ci adoperiamo per fornire anche traduzioni in inglese. Sono sempre felice quando persone nuove si avvicinano a noi, quando riusciamo a crescere come piattaforma.

KF : Lei investe tutte le sue energie in questo progetto museale ma proviene dal mondo della finanza. Da dove deriva questa motivazione, questo enorme impegno personale?

JH : Io stesso faccio parte della generazione dei bambini della guerra in Bosnia. Volevo fare qualcosa per questa generazione, volevo fare in modo che le loro storie venissero ascoltate. È diventata una missione professionale. Molta gente è stanca di sentire brutte notizie, di confrontarsi con la guerra e la violenza, ma le storie dei bambini le sta a sentire. In questo modo possiamo contribuire a una consapevolezza globale dei bisogni dell’infanzia. E questo aiuta le persone che raccontano le loro storie a fare un passo avanti nel loro confronto con il trauma della guerra.

Qualche tempo fa, in Giappone, ho parlato con persone che avevano vissuto la seconda guerra mondiale da bambini. Mi hanno detto: "Sono passati settant’anni e nessuno ci ha mai chiesto com'è stato per noi". Le storie dei bambini sono storie taciute: è raro che qualcuno le ascolti e non hanno alcun peso nei processi in tribunale. In primo piano ci sono di solito le storie dei soldati, dei politici, dei media. Dobbiamo colmare questa lacuna. Per questo la nostra missione è importante, per questo vogliamo farne un progetto mondiale.

Autore : Katharina Flieger, caporedattrice della Rivista svizzera dei musei

Il museo è chiuso fino a nuovo avviso

In vista delle sfide e delle opportunità offerte dal digitale, il Museo della Comunicazione di Berna ha presentato all’inizio dell’anno una nuova strategia per il futuro. La pandemia di Coronavirus ha inaspettatamente costretto il museo a implementare le nuove misure in tutta fretta. È stato un tour de force, come sottolinea Christian Rohner, responsabile delle mostre e del museo digitale.

Inizio febbraio 2020: presentiamo ai media la nostra nuova visione digitale di un «museo senza orari di chiusura». Nell’arco di un anno, un team di sei persone ha lavorato su questa strategia, ed è arrivato il momento di passare alla fase di attuazione. Siamo alla ricerca di un equilibrio tra l'analogico e il digitale, questo almeno è il nostro piano.

Metà marzo 2020: «Il museo è chiuso fino a nuovo avviso». Questo è il messaggio che si legge sul sito web del Museo della Comunicazione. Non avrei mai pensato che si potesse arrivare a tanto: una pandemia causata da un virus che si chiama Corona ha paralizzato la vita degli svizzeri, cogliendo di sorpresa il mondo museale. L’emergenza e la chiusura di tutti i musei decretata dal governo ci costringono, nostro malgrado, a testare rapidamente alcuni aspetti della nostra strategia futura. Stiamo collaudando nuovi formati per non dover spegnere completamente i riflettori sulle mostre. Dal 24 marzo abbiamo organizzato delle visite guidate accessibili su Internet: quattro volte alla settimana un gruppo di tre persone accoglie i visitatori in live streaming. Il pubblico può partecipare online a un tour di 15 minuti di una delle nostre mostre, dedicato a un tema specifico.

Smartphone al posto di troupe televisive

L'introduzione del formato digitale non è facile, perché nessuno del nostro staff ha esperienza in materia. Prima della pandemia, avevamo preso in esame le possibilità offerte dalla nuova tecnologia, ma la necessità di realizzare il progetto è emersa solo dopo il blocco. È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Qual è il canale adatto per la diffusione delle visite? Quali sono le conseguenze in termini di diritti d'autore e (come) devono essere archiviati questi tour? Come si sentono le persone incaricate della comunicazione quando parlano davanti a una telecamera? Le risposte a tutte queste domande pratiche possono essere trovate solo procedendo per tentativi ed errori.

La rivoluzione digitale degli ultimi decenni è testimoniata in maniera impressionante dai nuovi formati di comunicazione: se fino agli anni Novanta inoltrati per realizzare un progetto come il nostro sarebbe stata necessaria una stazione mobile televisiva completa di apparecchi per il controllo del suono, telecamere e presentatore, nel 2020 sono sufficienti uno smartphone e una piattaforma streaming. Tuttavia, il sostanziale cambiamento del comportamento degli utenti nella ricezione dei contenuti digitali può diventare un problema anche per le istituzioni. Infatti, le immagini di mostre e collezioni possono essere reperite in banche dati esterne, senza citazione della fonte e senza previo contatto con il museo. Con la strategia digitale che abbiamo sviluppato insieme all'Archivio delle PTT, vogliamo quindi non solo incrementare la nostra presenza nel mondo virtuale, ma anche contrastare questo problema. Il nostro museo e l'archivio delle PTT sono riuniti nella Fondazione svizzera per la storia della posta e delle telecomunicazioni.

Catalizzatore di un nuovo pensiero museale

La nostra strategia digitale segue tre obiettivi principali: intensificare la presenza del museo nel mondo virtuale, rafforzare la partecipazione e promuovere la memoria culturale. La chiusura fisica cui siamo costretti ci avvicina a questa visione in modo insolitamente rapido. Perché oggi se vogliamo continuare a essere accessibili, dobbiamo avere una presenza digitale ed espanderla ulteriormente. La pandemia sta diventando un motore di innovazione e il catalizzatore di un nuovo pensiero museale.

Il primo obiettivo della nostra strategia, la maggiore «presenza digitale», esprime il desiderio di rendere accessibili il Museo della Comunicazione e l'Archivio delle PTT come istituzioni della memoria collegate in rete e indipendenti dal tempo e dal luogo. In questo modo il museo e l’archivio diventeranno organizzazioni «senza orari di chiusura». Per ottenere una presenza digitale a lungo termine, il museo intende sviluppare offerte specifiche per gruppi di destinatari, come ad esempio visite alle mostre che si avvalgano di ulteriori applicazioni o documentazione digitale. Oltre al nostro metaportale, vogliamo rendere disponibile il cinque per cento dei contenuti dell'archivio e della collezione su piattaforme di uso frequente come Wikipedia o Europeana.

La nostra seconda ambizione è arrivare a una «cultura della partecipazione». A questo proposito si possono individuare due diverse esigenze. Da un lato, il pubblico dovrebbe avere voce in capitolo sulla scelta dei temi, proponendo storie o analisi di determinati oggetti delle collezioni. Dall’altro, i dipendenti dovrebbero essere in grado di lavorare in modo collaborativo e, ove opportuno, in luoghi diversi dalla sede. Queste due istanze sono attualmente oggetto di una nuova attenzione. Il pubblico può infatti proporre nuovi temi nella chat in streaming. E grazie all’adeguamento informatico, già intrapreso nel 2019, i collaboratori possono già utilizzare diversi programmi per lavorare da casa in modo efficiente e senza problemi.

Il nostro terzo obiettivo riguarda la «memoria culturale». I contenuti del museo e dell'Archivio delle PTT devono essere resi accessibili in formato digitale e collegati in rete, in modo da essere facilmente reperibili e al sicuro sul lungo termine. L'importanza di questo accesso digitale è palese nella situazione attuale, in cui non è possibile visitare fisicamente il museo.

Una rete trasversale tra le istituzioni

La digitalizzazione pone però anche delle sfide organizzative, in quanto richiede una rete che non è orientata a strutture dipartimentali consolidate. Anche per noi lo sviluppo e l'attuazione della strategia digitale è un compito trasversale. Un primo passo in direzione di questo cambiamento culturale è stata la fondazione del «DigiLab», un luogo di incontro per un’équipe di persone provenienti da tutte le aree del museo e dell'archivio. Questo gruppo ha elaborato la strategia digitale riassunta in un documento di dodici pagine, integrato da un glossario e un piano comune per le varie fasi dell'attuazione. Il «DigiLab» coordina e controlla lo sviluppo di un nuovo sito web, si occupa del concetto di esposizione e mediazione culturale, della valutazione della banca dati della collezione e degli indirizzi, della digitalizzazione dei processi amministrativi, della comunicazione interna, dell'archiviazione digitale a lungo termine e di due grandi progetti di retrodigitalizzazione di importanza nazionale. Tutto questo, naturalmente, andrà a buon fine solo se si potranno generare fondi terzi – perché mentre la presenza nello spazio digitale è in crescita, il budget operativo non aumenta.

Il museo virtuale diventa realtà

Non appena il nostro museo potrà riaprire i battenti, si porrà la questione di come collegare i concetti acquisiti di recente con la realtà che ci è familiare. Stiamo lavorando per far sì che «il museo e l'archivio senza orari di chiusura» non siano più solo una visione. Le visite guidate in diretta streaming, la retrodigitalizzazione del nostro patrimonio fotografico, il lavoro collaborativo in rete sono un inizio. Già nel settembre 2019 abbiamo lanciato «Lull&Lall – Kommunikation mit Drall», un blog che invita a riflettere con humour sul cambiamento digitale. È in preparazione la prima mostra virtuale, che fa seguito all’esposizione temporanea dal titolo «Sounds of Silence». In un secondo tempo, anche il tema «Corona» – un esempio emblematico di memoria culturale – troverà posto nella mostra permanente.

In futuro, l'offerta digitale e quella analogica saranno ugualmente disponibili, interconnesse e utilizzate in maniera integrata. La situazione attuale ci offre un'opportunità inattesa per raggiungere questo obiettivo: non potendo più accedere al mondo analogico, dobbiamo immergerci completamente in quello digitale. Il Coronavirus ha demistificato il digitale.

È auspicabile che i musei svizzeri trovino una piattaforma comune su cui le singole istituzioni possano presentare la loro offerta digitale, in modo da non lasciare ad altri la gestione dell'accesso al mondo della cultura digitale. Mi auguro anche che le visite guidate in diretta streaming si affermino come un'offerta permanente nonostante le difficoltà iniziali. Il pubblico, che ha partecipato attivamente a questo dialogo, ha avuto reazioni positive. In senso stretto, il motto dovrebbe quindi essere: «L'edificio del museo è CHIUSO fino a nuovo avviso. Il museo è virtualmente APERTO».

Autore : Christian Rohner, responsabile mostre e museo digitale e Project Manager della nuova mostra centrale del Museo della comunicazione

Digitalizzazione e biblioteche: un binomio possibile?

Quando a digitalizzarsi è un complesso sistema bibliotecario fatto di archivi, storie e libri: ne abbiamo parlato con il ticinese Stefano Vassere, direttore del Sistema bibliotecario ticinese.

La definizione che ne dà la prestigiosa Enciclopedia Treccani è molto semplice: la digitalizzazione è la «traduzione delle informazioni nel linguaggio del computer». Le cose si fanno leggermente più complesse quando si cerca di comprendere cosa comporti questa traduzione – da intendersi forse come un vascello che trasporti merce preziosa da una riva all’altra – che avviene su un doppio binario, quello tecnico da una parte e quello concettuale dall’altra. In questo processo epocale è inevitabilmente coinvolto anche il settore culturale, che abbraccia numerose discipline, spaziando dalla musica alla letteratura, toccando il teatro, i musei, le opere d’arte, e chi più ne ha più ne metta. Anche le biblioteche, depositarie del sapere umano fin da quell’antico e pionieristico edificio costruito nel 305 a.C. ad Alessandria d’Egitto, non possono e giustamente non vogliono sottrarsi a un processo che coinvolge ormai tutte le attività del genere umano.

Nuova linfa per archivi e fondi antichi

Ne sa qualcosa il linguista Stefano Vassere, direttore del Sistema bibliotecario ticinese, docente universitario, giornalista e operatore culturale molto attivo in Ticino, che abbiamo incontrato nel vivace centro culturale con biblioteca La Filanda di Mendrisio. Come molti altri, anche Vassere sta accompagnando da vicino questo processo delicato e complesso, e sa cosa significa digitalizzare il sapere, la conoscenza, ossia quanto di più etereo e al contempo solido vi sia. «Compito delle biblioteche», spiega Vassere, «oltre ovviamente a offrire l’accesso all’e-book, è anche quello di digitalizzare i propri materiali originali come fondi antichi, o proprie produzioni (atti di convegni e attività culturali in genere, cataloghi di mostre ecc.), ed è per questo che in Ticino la Divisione della cultura e degli studi universitari ha creato da tempo una Biblioteca digitale che raccoglie i materiali rendendoli disponibili a partire da una sede unica» (bibliotecadigitale.ti.ch). È infatti fondamentale che il processo di digitalizzazione sia centralizzato, poiché la creazione di un progetto di tale portata implica l’apprendimento di nuove competenze oltre a una continua selezione dei materiali e dei fondi da digitalizzare.

Attenzione al digitale tout court

In chi si ritrova nei panni del digital immigrant, e dunque è cresciuto con biblioteche fatte di libri veri (spesso vecchi e polverosi), con il cartoncino che certificava la propria affiliazione a un determinato istituto, nasce spontaneo il timore che qualcosa possa andare perso nei meandri dell’etere informatico, ma per Vassere il vero problema è un altro: «C’è il pericolo paradossale di considerare come significativo il solo materiale digitalizzato.

Quando si decide di rendere disponibile un fondo nella modalità online, c’è il timore che l’utente e la stessa biblioteca dimentichino il materiale rimasto fuori dall’operazione. In questo senso, il materiale digitalizzato acquisisce un pregio supplementare, in alcuni casi immotivato. È un po’ quello che un tempo succedeva per le fotocopie; diceva Umberto Eco che la fotocopia, di un articolo o di un libro, ingenera nel lettore l’impressione impropria di possederne il contenuto, magari anche senza averlo letto».

Dunque non è fuori luogo vivere come un controsenso l’accostamento di digitalizzazione e biblioteche? «Dobbiamo fare un salto», sostiene Vassere, «al netto del fatto che la digitalizzazione sia antagonista della biblioteca nella sua concezione tradizionale e di sede di aggregazione sociale, non va dimenticato il ruolo della biblioteca come agenzia di conoscenza nell’ambito della trasmissione del sapere e della cultura in tutte le sue forme, oltre alla sua vocazione di lettura di processi e tendenze nuovi». Attenti però a non esagerare, conclude mettendo in guardia Vassere, perché se davvero un giorno la biblioteca dovesse fornire tutto il materiale in forma digitale, a quel punto il contenitore, l’edificio biblioteca, si troverebbe confrontato con la grande sfida di dovere identificare ruoli e vocazioni diversi, reinventando il proprio mandato.

Autore : Simona Sala, giornalista culturale, da oltre 20 anni responsabile del settore culturale di «Azione», operatrice culturale, editrice e traduttrice.

In tempi di lockdown anche la cultura diventa digitale

Come la crisi del coronavirus costringe i musei a trovare nuovi escamotage digitali per non perdere il prezioso contatto con il pubblico.

Quando nel 1348 Firenze si vide confrontata con l’incubo della peste, sette donne e tre uomini decisero di isolarsi sui colli della città, trascorrendo dieci giorni a narrare a turno una storia al giorno. Il risultato di quel ritiro forzato è ancora tra le nostre mani: il «Decameron» di Giovanni Boccaccio (1313–1375) è una pietra miliare della letteratura mondiale. Nel 1348 la tecnologia era ancora distante anni luce, per cui ai dieci giovani in fuga dal morbo erano a disposizione due soli strumenti di comunicazione: la fantasia (o la memoria) e la voce.

Oggi, in un’epoca che ci ha visti catapultati in una situazione nuova e che ci trova reclusi a tempo indeterminato a causa del temuto coronavirus, ci affidiamo alla tecnologia laddove è possibile. Home schooling, teleworking e conference call, per non parlare dei social. Va da sé che anche la cultura, con le sue intricate strutture (museali, teatrali, musicali) è colpita in pieno da una crisi che per l’umanità rappresenta una prima.

La cultura sarà costretta a cambiare

«Non possiamo immaginare che tutto torni come prima (…) il mondo culturale svizzero cambierà», sosteneva qualche giorno fa il direttore di Pro Helvetia Philippe Bischof al quotidiano «24Heures». Sono però molte le strutture e gli istituti che, proprio in attesa di quel «dopo», di cui per ora non si conoscono le coordinate spazio-temporali, cercano di sfruttare al meglio la situazione, appoggiandosi alle opportunità offerte dal web. Il mondo della cultura si muove, e se da una parte abbiamo sempre più scrittori e musicisti che lanciano messaggi ai propri follower, dall’altra troviamo una rete museale che sta cambiando i propri connotati, cercando di sopperire almeno in parte alla mancanza di possibilità aggregative. Lo stesso Stefano Vassere (v. articolo), per il frequentato centro culturale con biblioteca La Filanda (Mendrisio) ma non solo, invita l’utenza a fare capo alle 300ʼ000 risorse (libri, audiolibri, materiali audio, spartiti, ma anche 250 conferenze) di cui il Sistema bibliotecario ticinese dispone (www.sbt.ti.ch/sbt/).

Tra virtual tour, lezioni in pillole e lettere ai direttori dei musei

E i musei, come si muovono? Abbiamo fatto un giro virtuale, curiosi di scoprire come si sono organizzate le strutture, in Svizzera e all’estero. Se il Kunsthaus di Zurigo (costretto a chiudere l’universalmente decantata mostra di Olafur Eliasson) propone dei virtual tour sui canali di YouTube e Instagram, la Fondation Beyeler (che ha dovuto abbassare le saracinesche sulla mostra dell’anno dedicata a Hopper) si rivolge direttamente all’utenza su Instagram, chiedendole nella story «From Home» cosa vorrebbe sentirsi raccontare. È la stessa linea del Museo Vincenzo Vela a Ligornetto, dove però, sempre su Instagram e FB, oltre a chiedere a visitatrici e visitatori di fare le proprie domande alla direttrice Gianna A. Mina o allo storico dell’arte Marc-Joachim Wasmer, per ricordare il bicentenario dello scultore Vela (i cui festeggiamenti sono rimandati) si invita l’utenza a inviare cartoline e realizzare video. Il Museum für Gestaltung di Zurigo, avendo iniziato i propri processi di digitalizzazione tempo fa, è già in grado di offrire all’utenza una panoramica di buona parte delle proprie opere, oltre a una serie di attività per grandi e piccoli per trascorrere il tempo durante il lockdown (#MuseumFromHome)

Andare al museo sarà ancora più emozionante

Molto articolata l’offerta di alcune strutture museali italiane (dove la crisi ha avuto inizio prima) grazie ad hashtag come #museichiusimuseiaperti e #laculturanonsiferma. Al Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, ad esempio, troviamo l’iniziativa #storieaportechiuse: su Instagram ogni giorno appare un aneddoto per ragazzi. Mini lezioni in pillole anche per il Museo Egizio di Torino, dove Christian Greco ha sì incitato alla «resistenza culturale» con una serie di iniziative didattiche online, ma spinge il suo pensiero anche in un ipotetico domani in cui, secondo lui, si dovrà affrontare il discorso di un’estensione della digitalizzazione anche ai siti archeologici, alle biblioteche e alle piazze, attraverso lo sfruttamento di strumenti tecnologici quali street view e walk-in projects.

La cultura è più accessibile che mai grazie al web. E proprio la crisi dettata dal coronavirus, come ogni momento di incertezza, mette in luce nuove potenzialità aprendo finestre di dialogo innovative. In futuro sarà importante trovare un equilibrio tra «concretezza museale» e digitalizzazione, ma, laddove si riuscirà, si sarà creato un potente fil rouge che rafforzerà il rapporto del pubblico con l’arte. Grazie al web abbiamo la possibilità «to stay in touch», e quando sarà tutto passato, andare al museo ci sembrerà ancora più bello. Un po’ come ritornare a casa.

Autore : Simona Sala, giornalista culturale, da oltre 20 anni responsabile del settore culturale di «Azione», operatrice culturale, editrice e traduttrice