Rivista svizzera dei musei · Novità libri

Rivista svizzera dei musei 24

Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno dominato la copertura mediatica. In questo numero, tuttavia, l'attenzione non si rivolge alle elezioni presidenziali, ma a un museo all'aperto. Mount Vernon, residenza di campagna di George Washington, nello Stato della Virginia, mostra le sfaccettature ambivalenti della sua presidenza. La Fotostoria svela il Museo del ferro e della ferrovia di Vallorbe. Qui i rappresentanti delle tradizioni viventi trasmettono conoscenze quasi dimenticate del mestiere del fabbro. Un altro articolo sottolinea la protezione dei beni culturali in Svizzera nel 70° anniversario della Convenzione dell'Aia. Questo numero autunnale contiene anche un articolo sul Congresso annuale, tenutosi a Berna in agosto sul tema «Sostenibilità sotto alta tensione».

Rivista svizzera dei musei 24

A proposito

La Rivista svizzera dei musei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Sul Congresso annuale: Sperimentare con coraggio

«La sostenibilità e le sue sfide» è stato il tema del convegno annuale 2024, tenutosi il 22 e 23 agosto al Centro Paul Klee di Berna. Nonostante la complessità dei contenuti, la manifestazione è risultata piacevole e stimolante, grazie alla varietà degli interventi, agli interessanti casi di studio e ai dibattiti articolati.

Per via delle loro responsabilità nei confronti della società, le istituzioni scientifiche e culturali dovrebbero impegnarsi a favore di uno sviluppo sostenibile, ciascuna nell’ambito delle sue possibilità: su questo punto i relatori sono stati concordi. Ma cosa significa con esattezza il termine sostenibilità? E quale contributo possono dare musei, giardini botanici a gestione scientifica, zoo e parchi naturali?

Le risposte sono state altrettanto varie quanto le istituzioni che si sono confrontate con questa complessa questione. Il Museo della comunicazione di Berna, ad esempio, ha dato vita al progetto «Planetopia»: una piattaforma dedicata al dialogo sull’ecologia e sull’esistenza responsabile. Naturalmente, non tutte le mostre possono – né devono – affrontare il discorso della sostenibilità in modo così esplicito. È altrettanto importante che i musei riflettano sulle proprie culture e strutture specifiche per incrementare il grado di sostenibilità delle loro operazioni. In quanto istituzioni pubbliche, i musei hanno un impatto su vasta scala e possono stimolare il dibattito. È quanto è accaduto, ad esempio, allo zoo di Basilea, dove un branco di leoni ha mangiato una zebra davanti a tutti: il fatto che la zebra in questione sia una preda che viene prima braccata e poi sbranata dai leoni nella savana oppure venga consumata, già morta, in uno zoo cittadino scatena reazioni contrastanti da parte del pubblico. Questo è un indice di quanto il concetto di sostenibilità diverga sensibilmente non solo tra esperti e non addetti ai lavori, ma anche tra gli specialisti.

Secondo l’esperienza di molti relatori, emozioni come la solidarietà o «l’eco-ansia»

possono motivare le persone a raggiungere obiettivi di sostenibilità, ma è necessario un approccio razionale per mettere in pratica tutto ciò. Lo Stapferhaus di Lenzburg dimostra che anche le strategie basate sui fatti non possono eliminare del tutto i conflitti tra obiettivi diversi. Il museo ha sede in un edificio costruito in modo sostenibile ed efficiente dal punto di vista energetico e non dispone di un deposito di opere. Tuttavia, in un’istituzione con un’impronta di carbonio ridotta, l'impatto ambientale causato dal movimento del pubblico diventa più significativo in proporzione al resto: questa contraddizione tra sostenibilità ecologica e sociale non può essere risolta, ma nel migliore dei casi può essere disinnescata con una consapevole definizione delle priorità.

Numerosi casi studio hanno rivelato le tensioni implicite tra i diversi obiettivi di sostenibilità a livello globale e locale, sociale ed economico, a breve e lungo termine. Spaziando dalla crisi climatica mondiale al monitoraggio climatico puntuale nelle cornici dei quadri, i relatori hanno proposto soluzioni di vario tipo. Nonostante le tante domande ancora aperte, il convegno ha lasciato nei partecipanti una sensazione incoraggiante, anche grazie alla ricchezza di formati: resoconti di esperienze vissute, considerazioni tecniche, dibattiti etici, istruzioni pratiche, ma anche due speedtalk, l’intervento di un attivista climatico e la partecipazione di un ospite a sorpresa: un comico che ha imbastito una storia divertente intrecciando diversi concetti proposti dal pubblico. «Il coraggio di sperimentare, un passo alla volta, senza paura» è stata l’esortazione finale, condivisa dai partecipanti.

Autrice: Judit Solt

Ambivalenze della digitalizzazione nei musei

Al Convegno annuale, gli esperti museali hanno presentato i loro progetti di sostenibilità e illustrato le misure per ridurre i costi ambientali. L’incontro ha fornito una serie di informazioni e spunti preziosi.

Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) dovrebbero essere raggiunti nel giro di cinque anni e anche i musei sono chiamati a dare il loro contributo alla conquista di questo importante traguardo. Oltre agli aspetti ecologici, gli Obiettivi includono anche temi economici e sociali: di conseguenza, sono stati presentati progetti per rafforzare la sostenibilità sociale e ridurre i costi ambientali. 

Nei due round di speed-talk, i rappresentanti degli 11 musei partecipanti hanno affrontato l’argomento da un punto di vista molto concreto, sottolineando l’importanza di procedere a piccoli passi e il coraggio necessario per farlo. L’attenzione si è concentrata anche sulle semplici decisioni quotidiane: prendere l’ascensore o fare le scale? Riutilizzare la carta? Offrire ai visitatori l’acqua del rubinetto o la minerale? Questi interrogativi, ormai parte delle conversazioni tra i collaboratori dei musei, richiedono il coraggio di gesti piccoli ma molto significativi.

Dopo la presentazione dei musei, l’intervento di Nicôle Meehan dal titolo «The ecocritical digital Museum – Challenges and opportunities for digitisation» è stato seguito con attenzione. Meehan si è concentrata sull’impatto ecologico della digitalizzazione mettendo il pubblico di fronte a cifre impressionanti. Dopo l’appello lanciato dall’artista e attivista per il clima Dorian Sari il giorno precedente, è apparso chiaro una volta di più quanto sia alta la posta in gioco.

Meno spostamenti grazie a data center di maggiori dimensioni

I musei si stanno impegnando su vari versanti per incrementare la digitalizzazione. Ne è un esempio il progetto «Digital Benin», considerato un modello di ricerca basata sui dati museali, al quale partecipano 131 musei e istituzioni di venti Paesi diversi. La piattaforma digitalbenin.org documenta i preziosi manufatti artistici del Regno del Benin saccheggiati alla fine dell’Ottocento e dispersi in tutto il mondo. I dati sui cosiddetti «Bronzi del Benin» sono collegati a fotografie storiche e materiale di documentazione, in modo che non solo tutti gli Edo interessati – in Nigeria e nella diaspora globale – ma anche gli studiosi e il grande pubblico possano avere una visione d’insieme e acquisire nuove conoscenze su quel patrimonio culturale. In questo contesto, vanno citati gli sforzi dei musei francesi per rendere accessibili le collezioni del patrimonio culturale africano attraverso l’open access e per promuovere in tal modo la decolonizzazione dei musei. Anche a livello regionale si può osservare come le strategie in favore di una crescente partecipazione culturale spesso utilizzino il potenziale delle tecnologie digitali.

La digitalizzazione implica certamente dei vantaggi per l’ambiente, dal momento che il lavoro digitale in quanto tale, la creazione di un accesso digitale alle collezioni e ai contenuti e lo svolgimento di riunioni online anziché in presenza possono ridurre significativamente l’impatto ambientale. D’altro canto, il fenomeno è accompagnato da un massiccio aumento della quantità di dati in circolazione – sempre associato alla richiesta della massima qualità – che, al contrario, provoca un aumento dei costi ambientali. Ed è su questo che interviene Meehan, spiegando come e in che misura il lavoro digitale nei musei provochi costi climatici, ambientali e umani. Il suo discorso, tuttavia, non si traduce in un appello a farne a meno; la relatrice invita piuttosto a una riflessione comune sulle conseguenze ecologiche della digitalizzazione e sulla ricerca di una maggiore efficienza in un’ottica di giustizia climatica.

Come dicevamo, Meehan ha citato cifre impressionanti che riflettono l’impatto ambientale della digitalizzazione. Anzitutto, l'elevato consumo di energia: nel 2022, le tecnologie digitali rappresentavano tra l’8 e il 10% del consumo energetico globale totale. In secondo luogo, le emissioni di gas serra: nel 2022, le tecnologie digitali sono state responsabili del 2-4% delle emissioni globali di gas serra, di cui quasi la metà provenienti dai soli data center. Ma l’archiviazione dei dati in questi centri ha un ulteriore impatto sull’ambiente: poiché la loro attività è ad alta intensità idrica, consumano tra gli 11 e i 19 milioni di litri d’acqua al giorno per il raffreddamento. Gran parte dell'impronta di carbonio nel settore dell’IT è generata durante la produzione e la distribuzione dell’hardware, ad esempio durante l'estrazione dei materiali per la produzione di singoli componenti come dischi rigidi, tastiere e chip. Per non parlare del trasporto di tutti questi componenti fino al sito di produzione. A ciò si aggiungono i rifiuti elettronici derivati dal processo di digitalizzazione: nel 2022 sono ne sono stati prodotti oltre 62 milioni di tonnellate in tutto il mondo, con un aumento dell’82% in 12 anni. A ciò vanno aggiunti impatti sociali significativi, spesso ignorati nel dibattito sulla tecnologia – sottolinea Meehan. La relatrice sostiene la necessità di considerare questi aspetti della digitalizzazione, collegandoli agli attuali dibattiti sulla decolonizzazione e sul post-colonialismo in modo interdisciplinare. Ad esempio, l’estrazione delle terre rare rilascia sostanze inquinanti e metalli pesanti che sono dannosi sia per le persone sia per l’ambiente. Lo stesso problema si pone con l’utilizzo dei rifiuti elettronici, che possono risultare tossici per i lavoratori direttamente coinvolti in caso vengano riciclati in maniera impropria o trattati illegalmente. Secondo Meehan, il fatto che i bambini siano spesso le vittime di queste situazioni dovrebbe costituire un incentivo per ulteriori sforzi. 

L’archiviazione dati: un tema cruciale

Il punto è: da dove cominciare? Meehan illustra il progetto di ricerca «Encode Muse» sui costi ambientali della digitalizzazione nei musei, che ha sviluppato presso l’Università di St Andrews nel Regno Unito. All’indagine, che ha coinvolto 97 musei e altre istituzioni culturali sparse in tutto il mondo, ha fatto seguito un seminario online e un incontro strategico tra esperti sul tema dell’impatto ambientale dovuto all’uso delle tecnologie digitali nelle istituzioni culturali. 

L’indagine ha mostrato che non tutte le organizzazioni interpellate danno priorità alla sostenibilità ambientale, anzi, sono ancora necessari grandi sforzi per comprendere l'impatto ambientale delle istituzioni e per incrementare il confronto interno sulla sostenibilità ambientale delle attività digitali. Una problematica particolare è la mancanza di elementi affidabili sulla base dei quali sviluppare una strategia efficace di conservazione dei dati. Anche sul fronte degli acquisti si rileva una scarsa conoscenza della sostenibilità dell’hardware; lo stesso dicasi per l’assegnazione dei contratti di servizio. Inoltre, molte istituzioni culturali non dispongono di fondi e risorse per i progetti di sostenibilità, da un lato, e per il rinnovo dei database e dell’hardware, dall’altro. Virare verso una maggiore sostenibilità richiede grandi sforzi organizzativi per ottenere i necessari cambiamenti nella prassi, ad esempio riguardo alla riproduzione e all’archiviazione dei materiali iconografici. Per concludere, c’è la questione delle aspettative del pubblico rispetto all’accessibilità digitale della collezione.

Checklist, linee guida e buona volontà: questo è ciò che occorre

Meehan ha sottolineato la necessità di registrare e analizzare sistematicamente i costi ambientali della digitalizzazione. L’aspetto della sostenibilità dovrebbe essere preso in considerazione durante l'intero processo: dalla decisione iniziale e dall’acquisizione di hardware e database alla digitalizzazione stessa fino alle decisioni relative a quali dati conservare, a come, e quali pubblicare. 

Meehan ha annunciato lo sviluppo di un kit di strumenti di mappatura per aiutare i musei a identificare i potenziali risparmi e a ottimizzare i loro progetti digitali. In senso più ampio, ciò incoraggerà anche lo sviluppo di nuove linee guida organizzative sulla digitalizzazione, mettendo in luce il valore dei progetti digitali per i diversi tipi di pubblico e rafforzando gli sforzi per decolonizzare gli spazi museali digitali.

Lanciata in Svizzera, l’iniziativa Happy Museums sta dando un importante contributo alla realizzazione di un futuro sostenibile nel settore dei musei e delle mostre. Dall’autunno 2023 è disponibile un calcolatore di CO2 gratuito per i musei, che possono avvalersi anche di una checklist con l’indicazione di provvedimenti specifici. Tuttavia, la digitalizzazione nel settore museale è un aspetto importante che deve essere discusso in modo approfondito e affrontato con misure concrete per ridurre i costi ambientali. Una cosa infatti è chiara: la digitalizzazione comporta un enorme dispendio energetico. In un futuro non lontano, tutti i musei si troveranno di fronte a due obiettivi contrastanti: da un lato la necessità di garantire la più ampia accessibilità e partecipazione, dall’altro quella di ridurre il più possibile i costi ambientali.

Autrice: Katrin Rieder

La protezione dei beni culturali: una tematica più attuale che mai

La Convenzione dell'Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato è stata stipulata nel 1954. Oggi, in uno scenario segnato da guerre e gravi fenomeni meteorologici causati dal cambiamento climatico, quel documento assume una rilevanza quanto mai attuale.

Nell’estate del 2023 quelle immagini suscitarono scalpore: a Brienz, un villaggio tra i monti del Canton Grigioni, un enorme cumulo di detriti rocciosi di varie dimensioni ricopriva il pendio fino ai margini del centro abitato. Contrariamente ai timori degli esperti che avevano previsto danni ingenti, per fortuna la frana risparmiò le case. Non solo la popolazione venne preventivamente evacuata, ma ancora prima le autorità locali riuscirono a mettere in salvo il bene culturale più importante del sito: il polittico della chiesa di San Callisto, risalente a 500 anni orsono.

La notte del 16 giugno, quando 1,2 milioni di metri cubi di detriti si riversarono a valle, l’opera era già al sicuro. Dopo essere stato smontato in oltre cento parti, accuratamente etichettate e imballate, il polittico venne trasferito in un luogo segreto, dove nei mesi successivi fu restaurato. L’evacuazione della tavola era coordinata dal Dipartimento di conservazione e restauro dell’Accademia delle arti di Berna, sotto la direzione della professoressa Karolina Soppa, in stretta collaborazione con l'Ufficio cantonale per la conservazione dei monumenti e l’Ufficio del militare e della protezione civile. Nel 2024 i responsabili del salvataggio sono stati insigniti del premio della Società svizzera per la protezione dei beni culturali (SSPBC).

Il pubblico se ne interessa solo quando va a fuoco una chiesa

Strettamente legata alla Convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali del 1954, la SSPBC è stata fondata dieci anni dopo e da allora promuove gli sforzi necessari a garantire che il patrimonio culturale svizzero venga trasmesso intatto alle generazioni future. In vista di questo obiettivo, l’associazione contribuisce «a proteggere il patrimonio culturale dalla distruzione in caso di conflitti armati e di danni causati da catastrofi ecologiche e tecnologiche, situazioni di emergenza, criminalità o incuria», come si legge sul sito web. Un impegno che non trova ancora l’ampio riconoscimento che merita, come spiega il copresidente Flavio Häner: «Ogni volta che una chiesa va a fuoco, il tema conquista per breve tempo l’attenzione pubblica, dopodiché non interessa quasi più a nessuno e ridiventa un argomento di nicchia». Sarebbe importante una consapevolezza più diffusa, continua Häner: «I beni culturali sono portatori di un senso di appartenenza e di continuità, oltre a essere importanti contenitori di informazioni. Spesso la loro perdita non è immediatamente percettibile, ma ha un impatto sulle generazioni a venire».

Negli ultimi tempi, il problema della perdita e il ruolo centrale dei beni culturali nella società sono venuti drammaticamente alla ribalta in Ucraina. La guerra dimostra che i beni culturali sono sistematicamente presi di mira. Gli attacchi puntano a minare l’identità culturale di un popolo, avverte Flavio Häner. «Alla luce dell'odierna guerra ibrida con l’obiettivo di destabilizzare le società, questo pericolo deve essere preso sul serio anche in Svizzera. A causa della loro esposizione, che li rende accessibili al pubblico, i beni culturali sono facili bersagli di aggressioni e sabotaggi».

Nel nostro Paese, numerosi enti e organizzazioni sono chiamati in causa per contrastare questo pericolo: anzitutto l’Ufficio federale della cultura (UFC), l’Ufficio federale della protezione civile (UFPP), la Commissione federale per la protezione dei beni culturali, le autorità cantonali e le reti come la SSPBC. La cooperazione globale è un fattore fondamentale per raggiungere l’obiettivo, come è emerso molto chiaramente durante la conferenza co-organizzata dalla SSPBC a Bruxelles il 2 luglio scorso, in occasione del 70esimo anniversario della Convenzione dell’Aia. La conferenza si era data il compito di stilare una serie di raccomandazioni sulla protezione transfrontaliera dei beni culturali da indirizzare all’Unione Europea. All’iniziativa ha partecipato anche Cécile Vilas, presidente della Commissione federale per la protezione dei beni culturali e direttrice di Memoriav. Secondo la stessa Vilas, è stato interessante constatare come, dal 1954, i paesi partecipanti alla conferenza abbiano organizzato la salvaguardia dei beni culturali in modi diversi. Malgrado ciò, «un ruolo centrale è stato assegnato agli obiettivi comuni, che sono stati discussi, classificati e affrontati in modo pragmatico. Temi come lo sviluppo delle competenze e la formazione, lo scambio di informazioni, la cooperazione e la sensibilizzazione costante sono stati considerati prioritari». 

Vilas si è detta colpita anche dal contributo della storica della cultura Aleida Assmann sul patrimonio e la memoria culturale. Nel suo intervento Assmann ha fatto risalire il concetto di patrimonio culturale all’epoca della Rivoluzione francese, per poi descriverlo nella sua dimensione attuale – dal punto di vista tecnico, culturale e politico – e sottolineare l’urgenza di porre delle basi politiche a livello europeo.

La Svizzera: un Paese antesignano

In termini di basi politiche, la Svizzera ha un ruolo di precursore a livello internazionale. Dopo aver aderito alla Convenzione dell’Aia nel 1962, già nel 1966 ha emanato una legge federale che ha posto una base importante e creato un quadro favorevole. Dopo una revisione completa, nel 2015 è entrata in vigore la Legge federale sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitti armati, catastrofi e situazioni di emergenza (LPBC), che copre anche le calamità naturali. Per Cécile Vilas si tratta di un fattore importante: «Il fatto che in Svizzera i beni culturali siano già da tempo salvaguardati da una legge ad hoc è un risultato degno di nota anche rispetto ad altri Paesi. Grazie al pragmatismo dei vari Cantoni, al lavoro della Commissione federale per la protezione dei beni culturali, sempre più collegata in rete, e agli inventari regolarmente aggiornati sui beni culturali sottoposti a tutela, la Svizzera è in grado di trasmettere a livello internazionale una grande quantità di competenze collaudate».

Da questo ruolo di pioniere, il copresidente della SSPBC Flavio Häner trae uno dei compiti più importanti per la Svizzera nei prossimi anni: il rafforzamento della cooperazione transfrontaliera. «Mi riferisco sia ai confini cantonali che a quelli nazionali. In particolare, la Svizzera dovrebbe partecipare in maniera più intensa alle attività multilaterali e sostenere la sua funzione di modello per la tutela dei beni culturali a livello internazionale».

Il numero crescente di catastrofi naturali legate al clima, da cui ovviamente anche la Svizzera è colpita, dimostra quanto sia urgente implementare le misure adeguate. Il maltempo e gli eventi climatici estremi rappresentano una grande sfida, spiega Flavio Häner. «Soprattutto la portata e la durata di questi fenomeni comportano grandi pericoli, e le persone devono innanzitutto proteggere sé stesse prima di pensare al patrimonio culturale, che spesso subisce dei danni ai quali in seguito si dovrà porre rimedio con grande dispendio di tempo e denaro. Questo rende ancora più importante il riconoscimento dei rischi e l’attuazione di misure preventive».

Pensando al futuro, Cécile Vilas chiama in causa un altro fenomeno: la trasformazione digitale, che pone sfide importanti anche ai fini della protezione dei beni culturali. «Anche i beni culturali stanno diventando sempre più digitali e necessitano di nuove misure di salvaguardia e nuovi luoghi in cui possano essere tutelati. Come dimostrano i conflitti armati in corso, il patrimonio culturale materiale e digitale, che è parte centrale della memoria culturale e dell’identità di Paesi e regioni, sta diventando sempre più bersaglio di attacchi, per cui sarebbe auspicabile che entrasse a far parte delle infrastrutture critiche». In primavera, Memoriav ha organizzato un simposio sulla protezione dei beni culturali audiovisivi – per inciso, le collezioni audiovisive e digitali dovranno essere elencate separatamente nel prossimo inventario dei beni culturali da sottoporre a tutela.

Il concetto di protezione è essenziale per i musei

La protezione dei beni culturali è una priorità assoluta anche per i musei. È necessario sviluppare misure e piani di salvaguardia, riflettere sui processi e creare reti di emergenza con le quali instaurare una stretta collaborazione. «I contatti tra musei, servizi di emergenza, responsabili cantonali dei beni culturali e protezione civile devono essere mantenuti in modo mirato e le esercitazioni devono svolgersi regolarmente», afferma Vilas. Come ex responsabile di una biblioteca, la direttrice di Memoriav ha preso più volte l’iniziativa, lavorando a stretto contatto con i vigili del fuoco, la protezione civile e le organizzazioni per la tutela dei beni culturali. «Da queste esperienze sono scaturiti piani di emergenza e, soprattutto, le persone coinvolte hanno acquisito familiarità con l’istituzione e le sue collezioni: un fattore essenziale in caso di bisogno». 

Le precipitazioni della scorsa estate in Ticino e nel Vallese hanno dimostrato l’importanza di tutto questo. A differenza del villaggio di Brienz, che si è organizzato in tempo per scongiurare il pericolo imminente, in quelle zone i danni si sono verificati in maniera imprevista nonostante gli avvertimenti.

A 70 anni dalla Convenzione dell’Aia, l’impegno per la salvaguardia dei beni culturali è più urgente e necessario oggi rispetto al passato. 

Autrice: Katharina Flieger

Mount Vernon: museo all’aperto e attrazione turistica

Mount Vernon, la tenuta di George Washington nello stato della Virginia, è un centro del culto della personalità del primo presidente degli Stati Uniti, che qui visse e lavorò, insieme a persone ridotte in schiavitù. Su questo lato oscuro di Washington si è taciuto per molto tempo. Da alcuni anni, per impulso della comunità afroamericana, viene presentato anche ai visitatori e alle visitatrici del museo all’aperto.

Su Mount Vernon si alza il sole del mattino. Il museo all’aperto nella tenuta del primo presidente degli Stati Uniti offre uno spettacolo mozzafiato con le sue querce antiche, le aiuole e i frutteti. Gruppi di visitatrici e visitatori passeggiano sui vialetti di sabbia rastrellati con cura, le scolaresche assillano i loro insegnanti. Ogni anno circa un milione di persone visita questo santuario nazionale, circa venti chilometri a sudest di Washington, D.C., nello stato federale della Virginia. Sulla ragguardevole estensione di duecento ettari, l’equivalente di quasi duecentottanta campi da calcio, sorgono, oltre alla casa padronale, stalle, parchi e giardini, una distilleria di whisky, una fucina e altri laboratori, nonché gli alloggi degli schiavi. La tenuta di rappresentanza del presidente era anche una fiorente piantagione. Dal 1858 è proprietà privata e, a differenza dei monumenti storici di importanza nazionale, non è gestita dall’ente statale del National Park Service. Proprietaria, con circa quattrocento dipendenti, è la Mount Vernon Ladies’ Association, la più antica istituzione privata per la tutela dei monumenti degli Stati Uniti.

Il nucleo del museo all’aperto è costituito dalla Mount Vernon Mansion, la casa padronale con tre piani e ventuno stanze in stile coloniale. Nel 1754 l’ambizioso agrimensore Washington prese in affitto la tenuta, che sette anni più tardi acquistò; da presidente degli Stati Uniti, la trasformò in una residenza di rappresentanza. Washington si considerava innanzitutto un coltivatore: «Era convinto che l’agricoltura statunitense potesse essere la migliore del mondo; per questo sperimentava nuovi metodi di coltivazione», spiega Julie Almacey, responsabile per la comunicazione e i media del museo all’aperto. Washington era un autodidatta che si faceva spedire i libri dall’Inghilterra e si informava sui metodi di rotazione delle colture ancora sconosciuti nelle colonie.

Gli ambienti della casa padronale possono essere visitati in piccoli gruppi accompagnati. Vi si trovano molti oggetti e manufatti evocativi della vita del presidente; mobili originali su cui sono poggiati appunti e lettere personali concorrono a creare un’atmosfera di autenticità. Non mancano oggetti d’arte e servizi di porcellana, libri aperti e strumenti geodetici. Tutto fa pensare a una raccolta di reliquie sacre, apparentemente non più toccata dalla morte di Washington: il tentativo di recuperare il suo universo con oggetti quotidiani.

La chiave della Bastiglia e una dentiera

Nel corridoio è esposto un regalo famoso, lasciato all’amico paterno nel 1789 dal Marchese de Lafayette, il rivoluzionario francese che combatté nella guerra d’indipendenza americana: la chiave della Bastiglia di Parigi, odiato simbolo di oppressione per la Rivoluzione francese. Fino a oggi uno degli oggetti che più incuriosiscono i visitatori e le visitatrici è la dentiera di Washington. Il glorioso generale della guerra d’indipendenza e coautore della Costituzione non aveva buoni denti: pare che nel 1789, quando prestò il giuramento di primo presidente degli Stati Uniti, gliene restasse in bocca non più di uno. Presumibilmente commissionò un totale di sei protesi; come materiali furono impiegati avorio, denti di cavallo, di mucca e anche di esseri umani.

Washington si batté per l’indipendenza dall’Inghilterra e per la costruzione di una nuova società democratica. Difese le colonie americane contro la Gran Bretagna, si ritirò volontariamente dopo due mandati ed ebbe una parte importante nella stesura e nella ratifica della Costituzione americana. Al tempo stesso possedeva più di trecento schiavi, tra donne e uomini, che sfruttava, dava a noleggio e vendeva. «Washington», spiega Brenda Parker, la guida che seguo nella visita, «si considerava un padrone di schiavi benevolo, ma i suoi ideali morali venivano solo al secondo posto». A Mount Vernon questo tratto del suo carattere trova espressione in molti particolari; un’ambivalenza che le guide come Parker, afroamericana, sottolineano nel corso delle visite.

Brenda Parker intona il famoso spiritual Go Down Moses, che veniva cantato dalle persone ridotte in schiavitù. Con indosso la cuffietta e il grembiule di una schiava domestica, conduce una visita guidata sulla vita quotidiana degli schiavi a Mount Vernon. Accompagna una scolaresca alla serra nel Giardino Superiore. La costruzione in mattoni e vetro è dotata di ampie finestre e di un impianto di riscaldamento. Washington vide una serra di questo tipo a Baltimora e se ne fece spedire i disegni. La sua doppia morale si esprime anche nell’architettura: accanto alla moderna serra, dove trovava applicazione la tecnologia più avanzata dell’epoca e si coltivavano piante utili, sorgono i miseri alloggi degli schiavi, mal isolati dagli agenti atmosferici. Molti ragazzi e ragazze della scolaresca rimangono allibiti per le condizioni indegne in cui si viveva in quegli alloggi, dove i bambini dovevano dormire per terra e non c’era che una parete a separarli dalle piante tropicali.

Meno culto della personalità, più elaborazione non edulcorata

Per mandare avanti l’azienda donne, uomini e bambini afroamericani sgobbavano nei campi fino a quattordici ore al giorno. In più, radunavano il bestiame, cucinavano e facevano le pulizie per i padroni di casa. Se si ribellavano, andavano incontro a punizioni corporali. Il padre fondatore degli Stati Uniti come schiavista: una realtà che la nazione e i curatori di Mount Vernon hanno stentato ad accettare. A quell’epoca la schiavitù era un’istituzione, un sistema di sfruttamento e di disuguaglianza che si arrogava il diritto di possedere altri esseri umani e li opprimeva con violenze psicologiche e fisiche; un sistema che uomini come George Washington legittimavano pur sapendo che era moralmente sbagliato.

Dopo la morte di Washington l’argomento della schiavitù e del lavoro forzato a Mount Vernon è stato omesso per decenni nelle visite turistiche. Una nuova visione ha iniziato a farsi strada solo nel 1983, con il restauro del cimitero degli schiavi ormai in rovina. Da allora la Mount Vernon Ladies’ Association si impegna a presentare anche gli aspetti oscuri della biografia di Washington. Nel corso degli anni ’80, questo processo ha portato a ricerche sistematiche e approcci partecipativi che hanno coinvolto in misura crescente le persone di colore. Scavi archeologici hanno riportato alla luce le tracce delle condizioni in cui vivevano gli schiavi. Inizialmente si è mirato ad accertare il numero delle persone ridotte in schiavitù e a ricostruire il loro lavoro quotidiano e le loro condizioni di vita. A partire dagli anni ’90 le conoscenze acquisite sono state integrate nelle visite guidate e nelle esposizioni. Un ruolo decisivo è stato svolto dai discendenti delle persone ridotte in schiavitù; storici e attivisti afroamericani hanno contribuito a realizzare mostre e programmi didattici. Oggi lo schiavismo di Washington è presentato da un punto di vista critico, e a Mount Vernon si impegnano per documentare meglio la vita degli schiavi e a farla conoscere con brochure, mostre e visite guidate.

Nel 1999 è stata inaugurata nel Centro educativo di Mount Vernon la prima mostra dedicata alla schiavitù. L’iniziativa ha segnato una svolta nel modo di presentare questo aspetto della sua storia. Da allora il pubblico ha la possibilità di conoscere meglio le singole storie e i destini individuali delle persone ridotte in schiavitù e di seguire le loro vicende. Si propongono così visite guidate speciali, l’esposizione di oggetti originali e la partecipazione di attori e attrici in costume, come Brenda Parker: «È un amaro destino, essere venduti e comprati insieme a un cavallo», dice agli scolari e alle scolare, e mentre parla dello stalliere afroamericano Peter Hardiman ha le lacrime agli occhi. «Abbiamo trovato un’enorme quantità di informazioni nei libri delle spese domestiche», spiega Parker. George Washington annotava meticolosamente ogni raccolto, ogni avvicendamento di colture, le entrate, le uscite e le razioni di cibo degli schiavi. Oggi queste annotazioni sono una manna per gli studiosi. Ad esempio, Parker e i suoi colleghi hanno scoperto che Hardiman era sposato con la cameriera Caroline Branham e aveva dei figli. A quell’epoca, però, il matrimonio tra persone ridotte in schiavitù non era riconosciuto: «Una proprietà non può sposare un’altra proprietà, ma rimane in questo o quel posto, oppure viene ereditata», spiega ancora Parker. Questo prevedeva la legge, e molti matrimoni venivano troncati a forza.

Il suo compito, dice Parker, consiste nel dare una voce a tutti e tutte coloro che sono riemersi/e come testimoni muti da elenchi e registri storici: «Alcune famiglie sono state schiave a Mount Vernon per decenni e per generazioni senza che gli studiosi trovassero qualche menzione diretta su di loro.» Domanda alla scolaresca: «Che cosa facevano queste famiglie che vivevano qui, malgrado l’orrore e l’oppressione della schiavitù?», e risponde: «Si sforzavano di condurre una vita quasi normale tra la privazione dei diritti e l’arbitrio. A quell’epoca non erano considerate persone; erano registrate come voci d’inventario, spostate qua e là come mobilia».

Doppio standard per l’ultima dimora

Nella tenuta si trova anche l’ultima dimora di Washington e della moglie Martha: due sarcofaghi di marmo in un elegante mausoleo all’interno di un recinto. A breve distanza, quasi invisibile in mezzo a un boschetto, c’è il cimitero degli schiavi. Fino al 1860 vi furono seppellite nell’anonimato diverse centinaia di afroamericani.

Luoghi storici come Mount Vernon vengono visitati da persone che hanno una scarsa o nessuna preparazione di base, come Parker sa per esperienza diretta. «La tenuta è una meta per bianchi e per stranieri». Questi riconoscono in Washington il personaggio sulla banconota da un dollaro, o il monumento nella capitale: «Per loro Mount Vernon è una voce nella lista dei desideri». Così nel museo all’aperto in primo piano c’è sempre il George Washington coltivatore, soldato, statista e marito; Washington proprietario di schiavi viene menzionato, la brutalità dello schiavismo rimane, tipicamente, nell’ombra. Una nuova visione è quanto chiede la comunità afroamericana, che ritiene il suo contributo alla costruzione e al successo degli Stati Uniti non adeguatamente riconosciuto. Quello che vive ogni giorno, invece, sono discriminazione, violenza poliziesca e razzismo, continua Parker.

La visita guidata è giunta al termine, ormai si è fatto pomeriggio. Nella tenuta di Mount Vernon, alle porte della capitale degli Stati Uniti, la convivenza tra fulgido eroismo e cupo schiavismo, lotta per la libertà e brutalità del lavoro forzato è tangibile. Finora, però, dei più di un milione di visitatori e visitatrici che vi arrivano ogni anno, appena uno su dieci opta per lo Slave Life Tour. «Washington è venerato come un dio», dice Brenda Parker, «ma nel corso dei decenni l’eroe popolare si è irrigidito in una statua di marmo. Noi lavoriamo per tirarlo giù dal piedistallo».

Autore: Michael Marek

Cronaca 2024

Il 2024 è stato un anno ricco di anniversari per i musei svizzeri: li passiamo in rassegna a partire dai più giovani. Il MEG di Ginevra festeggia i suoi primi dieci anni nella nuova sede, mentre il Musée Militaire Genevois e la Fondation de l’Hermitage di Losanna celebrano entrambi il loro 40esimo compleanno, seguiti a ruota dal Museum Münsingen che ha la stessa età. A Ginevra, il Centre d’Art Contemporain Genève festeggia i suoi 50 anni. Per il suo 70esimo genetliaco il DIORAMA di Einsiedeln ha messo in atto una riorganizzazione strategica, diventando anche un luogo di incontro. Vi sono poi due istituzioni che quest’anno festeggiano il loro 75esimo compleanno: il Musée d'art de Pully e il Museo Moesano di San Vittore nei Grigioni. Infine, due musei di Friburgo compiono ben 200 anni: il Musée d'art et d'histoire e il Musée d'histoire naturelle. Auguri a tutti i festeggiati!

Nel 2024 il Sensorium Rüttihubelbad ha celebrato il suo 20esimo anno con la mostra speciale interattiva «Leben ist Schwingung», co-curata da Alice Baumann la nuova direttrice del museo dall’agosto 2023 – contrariamente a quanto riportato qui lo scorso anno, quando era stato fatto il nome di Hans-Ueli Eggimann. Questo ci porta ai vari «cambi della guardia», che anche quest’anno sono stati numerosi, perciò veniamo subito al dunque! All’inizio del 2024, Angelo Romano è subentrato ad Andrea Matter alla direzione del Museo della Scuola di Berna, mentre Alyce Martinoni è diventata curatrice del Museo di Valmaggia al posto di Larissa Foletta. Il Museo della comunicazione ha iniziato il nuovo anno con Melanie Mettler come nuova presidente della Fondazione, mentre Marius Geschinske è diventato direttore della Kunsthalle Luzern al posto di Michael Sutter. All’inizio del 2024, Christian Sidler è subentrato a Carmen Kiser in veste di direttore del Museum Bruder Klaus. Da quest’anno Esabeau Soguel è la nuova curatrice del Musée de La Sagne, succedendo a Laurent Huguenin. Sempre all’inizio dell’anno, Magali Junet ha assunto la direzione della Fondation Toms Pauli dopo Giselle Eberhard, che è andata in pensione. Dopo una prima gestione ad interim, all’inizio del 2024 Marco Costantini è diventato direttore del mudac. Dalla fine dello scorso anno, Amelie Rose Schüle dirige il Photoforum Pasquart e Martina Huggel il Museum des Landes Glarus. Sempre alla fine dello scorso anno, Lisa Schlittler ha sostituito Carol Nater Cartier come responsabile dei contenuti e Rebecca Hauser come responsabile operativa dell’Historisches Museum Baden. 

Pia Lädrach ha lasciato la direzione del Museo dei bambini Creaviva presso il Zentrum Paul Klee nel febbraio 2024; in agosto le sono subentrati Katja Lang e Beat Glarner nel ruolo di condirettori. Dal febbraio 2024 Laurent Langer è il nuovo co-direttore del MahN, in sostituzione di Antonia Nessi, passata alla guida del Museo Vincenzo Vela nel novembre 2023. Sempre in primavera, iLiana Fokianaki è succeduta a Kabelo Malatsie alla direzione della Kunsthalle di Berna. Da marzo Mohamed Almusibli è direttore e curatore capo della Kunsthalle di Basilea come successore di Elena Filipovic, che a sua volta ha preso le redini del Kunstmuseum Basel da Josef Helfenstein, il quale è andato in pensione. Lo stesso dicasi per 

Benedikt Zäch, ex capo del Gabinetto delle monete, cui in aprile è subentrato Gunnar Dumke. Contemporaneamente, Marie Elmer ha assunto la carica di nuova direttrice generale dell’Associazione MUSA, che riunisce i musei del cantone San Gallo, succedendo a Celin Fässler. Alla fine di aprile, Kilian T. Elsasser si è dimesso dalla carica di presidente di VINTES ed è stato sostituito da Regula Wyss. Anche Nicole Eller Risi ha lasciato il Tal Museum Engelberg alla fine di aprile; la nuova direttrice è Florence Anliker. Al Kunsthaus Zürich, la carica che era di Christoph Stuehn è stata divisa tra due persone con lo stesso nome: Alex Hefter, nuovo responsabile delle vendite e dei servizi, e Alex Schneider nel ruolo di vicedirettore. Gabriele Keck, direttrice dell’Historisches Museum Thurgau, è andata in pensione lasciando il posto a Noemi Bearth che si è insediata all’inizio di maggio dopo avere a sua volta ceduto a Florence Anliker l’incarico di direttrice del Ritterhaus Bubikon. Contemporaneamente, Andrea Kauer Loens è diventata direttrice del Museo nazionale del Liechtenstein; il suo successore al Museo retico è Guadench Dazzi. A maggio c'è stato un passaggio di consegne anche alla direzione del Museo di Zofingen, dove Heidi Pechlaner Gut ha preso il posto di Katharina Müller.

Nel giugno 2024 Sandra Bucheli ha sostituito Cornelia Renggli in veste di direttrice del Regionalmuseum der Luzerner Rigi-Gemeinden. A giugno è andato in pensione anche Peter Pfrunder, direttore della Fotostiftung Schweiz; il suo successore è Lars Willumeit. Nello stesso mese, l’ex direttore del Centro delle collezioni del Museo nazionale Markus Leuthard è andato in pensione ed è stato sostituito da Roman Aebersold. Sempre a giugno Irène Fiechter ha assunto la carica di curatrice e direttrice operativa del Museo di Thalwil, e Walter Pfister è subentrato a Bea Althaus alla presidenza dell’Associazione per la salvaguardia del patrimonio presso il Museo del Castello di Grüningen. A luglio, Gesa Schneider è subentrata a Katharina Epprecht in veste di direttrice del Museum zu Allerheiligen, mentre Epprecht è entrata nel consiglio di fondazione del Museo tessile di San Gallo. Nello stesso mese di luglio Nadja R. Buser è diventata direttrice del Museo locale di Allschwil. Alla Maison d’Ailleurs, Marc Atallah è stato sostituito a settembre dal curatore Frédéric Jaccaud, che ora ricopre anche il ruolo di direttore. Contemporaneamente, la nuova direttrice del Museo civico di Brugg, Pascale Marder, ha preso il posto di Rebecca Niederhauser. Nell’ottobre 2024, Aurélie Carré ha assunto la direzione del MEN dal direttore ad interim Marc-Olivier Gonseth.

Nello stesso periodo, Ilona Genoni Dall è subentrata a Roger Fehr – che è andato in pensione – nel ruolo di responsabile del Dipartimento servizi centrali e membro della direzione dell’Istituto di studi d’arte SIK-ISEA. A sua volta, Jolanda Schärli ha iniziato il suo lavoro come coordinatrice dei musei dell’Appenzello, succedendo a Isabelle Chappuis. Almut Grüner ha lasciato il Museo di Lucerna alla fine di ottobre e il vicedirettore Benedict Hotz ne ha assunto la direzione ad interim. Peter Flückiger, storico direttore del Museo della natura di Olten e dal 2019 anche direttore della Haus der Museen, andrà in pensione alla fine di ottobre; il suo successore è Samuel Furrer.

L’ultimo capitolo lo dedichiamo a costruzioni, trasformazioni, inaugurazioni e quant’altro. Dal dicembre 2023, la collezione dell’ex Museo Gutenberg di Friburgo fa parte dell’Enter Technikwelt Solothurn di Derendingen. L’ultimo giorno del 2023, il Museo zoologico dell’Università di Zurigo ha assunto un nuovo nome: Museo di storia naturale dell’Università di Zurigo NMZ. Dal maggio scorso, il Museo alpino della Svizzera si chiama in breve ALPS, con il nome precedente che rimane come aggiunta. A giugno, dopo dieci anni di lavori, ha aperto i battenti il Musée de la mécanique d’art et du patrimoine de Sainte-Croix (MuMAPS), che riunisce ben tre musei precedenti: il Centre international de la mécanique d'art (CIMA), il Musée des arts et des sciences (MAS) e e il Musée Baud. Dal canto suo l’Historisches Museum Obwalden cambia stile e nome, diventando semplicemente Museum Obwalden, nel quadro di un più ampio progetto di trasformazione intitolato «Obwalden macht Museum».