Rivista svizzera dei musei

Rivista svizzera dei musei 14

La Rivista pubblicata dalle associazioni AMS e ICOM Svizzera ha subito un importante cambiamento: è diventata più agile, più colorata e più attuale.

Rivista svizzera dei musei 14

A proposito

La Rivista svizzera dei musei è la rivista dei membri dell'AMS e di ICOM Svizzera. Fornisce informazioni sulle attività delle associazioni e sull'attuale politica culturale, presenta una selezione di opere specialistiche e offre uno sguardo dietro le quinte dei musei svizzeri attraverso una serie di fotografie. La rivista viene pubblicata due volte l'anno in edizione multilingue. Le traduzioni dei principali articoli sono disponibili su museums.ch.

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Traduzioni

Glocale - A chi appartiene il museo?

Alla finestra gerani provenienti dall’Africa, allo zoo ricci originari del luogo: tra globale e locale c’è un rapporto di complessa correlazione e di vivace scambio. Per questo motivo il congresso di quest’anno di AMS e ICOM Svizzera, tenutosi il 22 agosto a San Gallo, si è occupato del “glocale”. I contributi hanno svelato collegamenti sorprendenti e mostrato nuove prospettive.

In un mondo globalizzato, abitato da popolazioni eterogenee e mosso dalla competizione a livello internazionale, i musei si trovano di fronte a interrogativi urgenti: in che modo i musei mantengono la loro importanza agli occhi del pubblico? E soprattutto, chi è questo pubblico? Se si tratta esclusivamente di persone di un certo ceto sociale e in età avanzata, allora non rappresentano la varietà della popolazione. Ed è così che i musei finiscono in un vicolo cieco. Del resto, perché la gente dovrebbe mostrare interesse per un museo se questo non mostra interesse per la gente? Sono fonte di ispirazione quei musei che davanti a simili sfide scelgono la strada della partecipazione: musei che sviluppano mostre e attività non per il proprio pubblico, ma con il proprio pubblico. Questi musei si aprono e offrono l’opportunità di contribuire alla pari con interessi e conoscenze e di condividerle. Solo se una comunità viene coinvolta in modo sostenibile e significativo può essere realmente rappresentata dal museo.

Il concetto di glocale fu tirato in ballo dall’allora presidente di ICOM Svizzera, Madeleine Schuppli. Helen Bieri-Thomson, Katharina Epprecht ed io lo abbiamo ripreso di buon grado e sviluppato il programma per il congresso annuale 2019. Nel farlo eravamo consapevoli che anche la questione della restituzione rientrava nell’ambito tematico del glocale. Data la portata dell’argomento, tuttavia, ci è sembrato ragionevole dedicare a questo aspetto una conferenza separata. Abbiamo così definito due punti principali su cui concentrarci: la partecipazione, inquadrata nell’ambiente museale, e la trasformazione culturale con particolare riguardo alle collezioni – un mix variegato, come mostrano i contributi raccolti qui di seguito.

“Storie diverse per un futuro comune”

I visitatori guardano i loro smartphone: l’apparente incubo di qualsiasi museo classico è esattamente ciò che aspetta i visitatori del Brooklyn Museum. L’app “ask Brooklyn Museum” incoraggia gli ospiti a porre domande sulla mostra tramite lo smartphone. Le risposte verranno direttamente dal personale del museo. Sharon Matt Atkins, direttrice del Dipartimento mostre e iniziative strategiche, ha illustrato il modo in cui il Brooklyn Museum favorisce la partecipazione. Nel corso degli anni il museo ha coraggiosamente preso parte a numerosi esperimenti e ha coinvolto il variegato mondo del quartiere di Brooklyn. Tutte le iniziative si fondano su una precisa missione – “Dar vita a incontri stimolanti con l'arte che ampliano il nostro orizzonte nel modo di vedere noi stessi, il mondo e le sue possibilità” – e su parole d’ordine come “Storie diverse per un futuro comune”. Sharon Matt Atkins ha sottolineato che prima di rivolgersi a nuovi gruppi, un museo deve innanzitutto conoscerli. Il contributo della gente del posto non va comunque a discapito degli ospiti internazionali. Il Brooklyn Museum è riuscito così a creare un equilibrio dinamico ed efficace tra due gruppi target. Un arricchimento per tutti, perché in questa maniera anche il museo può continuare a svilupparsi, purché ascolti con attenzione – non a caso “listening” è stata una parola chiave di questa presentazione.

“Una mostra a sorpresa”

Anne-Claire Schumacher, curatrice capo presso l’Ariana Museum di Ginevra, ha presentato il progetto “Blue Sky”. Tre giovani richiedenti asilo provenienti da paesi extraeuropei sono stati invitati a confrontarsi attivamente con il museo. È curioso notare che il coinvolgimento si è concretizzato nell’esposizione di oggetti in ceramica blu cobalto, un colore diffuso in tutto il mondo. Per la curatrice e gli artisti coinvolti è stata una sorpresa rendersi conto del desiderio dei giovani di produrre opere in ceramica e di inserirle nella mostra permanente. Il progetto ha così lasciato tracce visibili per tutti gli ospiti del museo. Alla fine uno dei ragazzi ha addirittura scelto l’apprendistato come ceramista. Questo progetto dimostra come un approccio aperto a ogni esito possa dimostrarsi efficace.

“Piccolo grande mondo”

Anche se il Museo di Val Verzasca non è molto grande, i suoi risultati lo sono. In passato i visitatori erano in prevalenza turisti. Poiché gli abitanti della valle non andavano al museo, la curatrice Veronica Carmine ha avviato il progetto “Senti questa!”. Ha invitato la popolazione a nove incontri in diversi ristoranti sparsi per l’intera valle, a condizione che ciascuno portasse un oggetto, dei documenti o delle foto e le loro storie personali. Le testimonianze raccolte nell’arco di oltre un mese sono diventate oggetto di una mostra: allora sì che gli abitanti del luogo sono andati al museo – dopotutto era diventato il loro museo e conteneva le loro storie...

“Il museo ha bisogno dei rifugiati più di quanto questi abbiano bisogno del museo”

Dalla scorsa primavera alcuni rifugiati offrono visite guidate al Bernisches Historisches Museum. Aline Minder, responsabile della formazione e della comunicazione, e Annemarie Sancar, antropologa sociale e promotrice del progetto, hanno presentato i cinque punti dell’iniziativa intitolata “Multaka”. Uno di essi è: “Il museo ha bisogno dei rifugiati più di quanto questi abbiano bisogno del museo”. Il formato interattivo del progetto, che prevedeva in origine una cooperazione tra cinque musei di Berlino, si sta diffondendo ora ad altri musei in tutto il mondo anche perché è facilmente modulabile e adattabile a strutture grandi e piccole. I rifugiati intraprendono una nuova attività, il pubblico usufruisce di un’inaspettata visita guidata e il museo di Berna ne risulta avvantaggiato – come nel caso della famosa sala espositiva che mostra “l’Oriente” dal punto di vista europeo: uno sguardo dall’esterno molto interessante.

Trasformazione culturale: collezioni sullo sfondo delle migrazioni

Come già detto all’inizio, il secondo aspetto su cui si è focalizzato il convegno è stato il processo di trasformazione culturale. Il collegamento tra diverse regioni influenza l’esistenza umana sin dalla preistoria. L’idea che ci siamo fatti di emissari ed esponenti di spicco di una certa regione culturale è spesso frutto di scambi e movimenti migratori: dietro certi prodotti della cultura locale si cela un’inattesa storia di migrazione. L’originaria appartenenza culturale di alcuni manufatti e i loro segni distintivi stilistici e formali possono essere stati assimilati attraverso ripetute trasformazioni o appropriazioni, tanto da venire erroneamente considerati come fenomeni tipicamente locali. La trasformazione culturale descrive un processo di reciproca influenza e mescolanza, che porta alla luce nuove conoscenze e preferenze estetiche. Così, ciò che presumiamo essere “tipico” e rappresentativo di una realtà locale è spesso il prodotto di processi globali di trasformazione. Nel pomeriggio sono stati presentati alcuni esempi, scelti per chiarire questo tipo di equivoci.

“Siamo tutti viandanti lungo la strada che attraversa i secoli”

Strada e campo anziché casa e focolare. Migrare anziché mettere radici. Niente presentazioni cronologiche, ma tematiche. Omissione piuttosto che ridondanza. Matthias Wemhoff, direttore del Museum für Vor- und Frühgeschichte (Museo della Preistoria e Storia Antica) a Berlino, ha spiegato con chiarezza come abbia infranto le regole di una mostra archeologica. Con questo cambio di prospettiva la presunta storia patria diventa una storia europea con forti collegamenti al presente. Una dimostrazione esemplare è stata “Bewegte Zeiten/Restless Times”, la mostra sull’archeologia tedesca che si è tenuta a Berlino in occasione dell’Anno europeo del patrimonio culturale 2018. Gli specialisti di settore e i frequentatori abituali dei musei hanno manifestato un po’ di fastidio per questa rottura dei modelli tradizionali di pensiero, al contrario di chi al museo ci andava per la prima volta.

“Immigrato, naturalizzato, ‘elvetizzato’, globalizzato.”

Chi non conosce gli idilliaci chalet svizzeri con i gerani alle finestre. Eppure dietro questa pianta apparentemente così svizzera si nasconde un passato di migrazione. Il geranio giunse in Europa come pianta esotica nel XVII secolo e fece il suo debutto artistico in Svizzera nel XIX secolo – in un quadro di Albert Anker, il noto pittore della vita quotidiana della gente semplice. In seguito si diffuse in tutta la Confederazione attraverso fiere e associazioni impegnate ad abbellire il paese. Nel dopoguerra era particolarmente apprezzata la combinazione di fioriere in eternit con gerani rossi. Così, da esotica che era è diventata la pianta nazionale svizzera. Oggi è un prodotto industriale globale: le piantine che si trovano nei mercati svizzeri provengono infatti dalle serre africane. Sull’esempio del geranio, Beat Hächler, organizzatore di mostre e direttore dell’Alpines Museum, ha raccontato come lavora la sua struttura che si occupa regolarmente di progetti relativi all’identità alpina e cerca di costruire collegamenti tra i concetti di “patria” e “estero”. Oltre ai programmi espositivi veri e propri, il museo è impegnato in diverse collaborazioni sostenibili, come quella con i musei regionali.

“Animali esotici e accenti del luogo”

Giraffa, ghepardo, gorilla: le attrazioni dello zoo di Basilea sono gli animali esotici. Il suo direttore, Olivier Pagan, ha spiegato che uno zoo scientifico fa molto di più: oltre a svago e formazione si occupa anche di ricerca e tutela dell’ambiente. L’attenzione è rivolta all’incontro tra esseri umani e animali.

È sorprendente che tra i recinti della verde oasi di Basilea vivano anche oltre 3.000 specie autoctone, che hanno scelto lo zoo come loro habitat – un esempio è il riccio. Anche nel mondo animale quindi l’incontro tra globale e locale è diretto.

“Strada a doppio senso – Dialogo alla pari”

Cappuccetto rosso e Barbablù: i fratelli Grimm sono famosi soprattutto per le “Fiabe del focolare”, una raccolta di racconti della tradizione orale di varia provenienza. Nel 2005 le loro opere sono state inserite dall’UNESCO nel patrimonio culturale dell’umanità. Con una scenografia accurata e creativa, a Kassel il Grimmwelt ci presenta la vita e le creazioni dei due fratelli. Partendo dalla tradizione e dall’arte di narrare favole, presenti in tutto il mondo, il Grimmwelt ha realizzato un progetto di integrazione e uno scambio interculturale con i rifugiati che vivono in loco. Sono stati prodotti dei materiali di lavoro, disponibili per il download in tredici lingue. Nella sua presentazione il direttore Peter Stohler ha mostrato chiaramente come anche ai giorni nostri abbia senso continuare a parlare di favole.

“La potenza dell’incontro diretto”

I cosiddetti “Indiennes”, ossia tessuti di cotone impreziositi da disegni artistici, sono tra i primi prodotti globalizzati: dal XVII secolo fanno parte dei circuiti commerciali che attraversano i continenti. Grazie a un soggiorno di studio promosso da ICOM Svizzera, lo Château de Prangins ha invitato un collega del Musée Théodore-Monod d’art africain di Dakar a recarsi presso la sua sede sulle sponde del lago di Ginevra. Mohamadou Moustapha Dieye, assistente curatore e conservatore, ha collaborato per due settimane all’esposizione permanente sulla storia di questi tessuti. La direttrice Helen Bieri-Thomson ha seguito questo progetto, grazie al quale il personale del museo ha acquisito una migliore comprensione del ruolo di questi materiali e l’esperto senegalese ha potuto beneficiare del confronto con i colleghi svizzeri. Il progetto ha messo in luce la misura in cui il globale è presente in uno storico abito da donna considerato “tipicamente svizzero”.

E adesso?

La scelta di focalizzarsi su partecipazione e trasformazione ha confermato che “glocale” è un tema importante e sempre attuale per i musei. Con spirito di autocritica continuiamo a interrogarci su un punto fondamentale: al servizio di chi vogliono e devono essere i musei? Le premesse per la riuscita di progetti globali-locali sono una visione imparziale, idee chiare e perseveranza. Da questo approccio tutte le entità coinvolte traggono benefici: il museo come il pubblico. Per dirla con le parole di Sharon Matt Atkins del Brooklyn Museum: “It is all about partnership.”

Autore: Jacqueline Strauss, direttrice del Museo della Comunicazione a Berna

Globale, locale: è uguale?

Il congresso di quest’anno era all’insegna del “glocale”. Un rapido sguardo alla storia di questo concetto e alle sue molteplici potenzialità per il mondo museale.

Durante il congresso di AMS e ICOM di quest’anno si è parlato tra l’altro di gerani, yoga e dei ticinesi emigrati negli Stati Uniti: tutto ciò e molto altro ancora può essere racchiuso nel concetto generale di “glocale” che, come è facile intuire, schiude vaste prospettive. Come si legge nell’intervento di Jacqueline Strauss, le presentazioni di istituzioni grandi e piccole hanno offerto stimolanti panoramiche di progetti in cui si integrano i concetti di globale e locale. Ma cosa si intende esattamente con “glocale”? Quando e come è stato usato questo concetto e quale potenziale potrebbe rappresentare attualmente per il mondo museale svizzero?

Innanzitutto l’aggettivo e il sostantivo “glocale”, insieme a “glocalizzazione” – termine che si concentra piuttosto sul processo –, indirizzano la nostra attenzione verso due poli opposti: la contrapposizione tra grande, globale, universale e piccolo, locale, particolare. Eppure non si tratta di una contrapposizione così netta. Infatti il concetto di globalizzazione – cioè il processo di crescente interdipendenza a livello mondiale e i fenomeni ad essa connessi relativi a scambi, commercio, diversificazione e uniformazione – già riunisce in sé entrambi questi poli. Prima della globalizzazione, locale e globale erano già collegati tra loro: oggi lo sono ancora di più, sono necessari l’uno all’altro.

Le prime ricerche in rete tracciano un quadro vago: ci si imbatte in titoli invoglianti come “La glocalizzazione spiegata in modo semplice e come trarne vantaggio” sui blog di sedicenti “manager del cambiamento” o in definizioni, come quella dell’Oxford Dictionary of New Words, che spiega la glocalizzazione semplicemente come The practice of conducting business according to both local and global considerations. L’enciclopedia Britannica si spinge un po’ oltre: Glocalization, the simultaneous occurrence of both universalizing and particularizing tendencies in contemporary social, political, and economic systems. Ma anche la definizione di glocalizzazione come il manifestarsi simultaneo di tendenze universalizzanti e particolarizzanti negli odierni sistemi sociali, politici ed economici si presta ad essere criticata poiché sorvola sulla dimensione culturale del concetto. Locale, globale e, in senso lato, glocale compaiono infatti anche a proposito di argomenti quali ibridazione, trasformazione culturale, nazione o identità. È per questo opportuno dare un rapido sguardo alla storia di questo concetto.

La diversità si vende bene

Già negli anni Ottanta il neologismo “glocalizzazione” era utilizzato in contesti economici, sul modello del giapponese dochakuka, con cui originariamente si indicava l’adeguamento delle tecniche agricole alle condizioni del luogo. Nel mondo degli affari nipponico si affermò però anche come definizione per l’adattamento di una prospettiva globale alle condizioni locali. In Occidente è stato tradotto con una “parola macedonia”: “glocalizzazione” appunto. Come parte del gergo internazionale del commercio, nei primi anni Novanta il termine acquisì un significato più specifico ed entrò a far parte del linguaggio del marketing. È così che i pubblicitari indicavano la customizzazione di merci e servizi a livello globale e la loro promozione in mercati particolari e segmentati. Il “micromarketing” fu applicato a collaudati quiz televisivi o ai format dei provini, adattandoli alle differenti caratteristiche e condizioni nazionali; lo stesso accadde nelle maggiori catene di ristoranti e nel settore della moda.

Fu il sociologo britannico Roland Robertson che nel 1995 con il saggio Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity introdusse il concetto nell’ambito delle scienze sociali e ne ampliò la portata. Secondo Robertson la dimensione locale non è contrapposta alla globalizzazione ma ne costituisce un aspetto. “È quasi superfluo precisare che l’adeguamento alle condizioni locali e ad altre specifiche in un mondo di produzione capitalistica per mercati sempre più globali non è solo una questione di reazione imprenditoriale alla pluralità globale esistente – a consumatori che si differenziano per cultura, territorio, condizione sociale, etnia, sesso e quant’altro –, come se una tale pluralità o eterogeneità semplicemente esistesse di per sé”. L’autore metteva così in risalto la natura progettuale del concetto: “Il micromarketing – o più in generale la glocalizzazione – contempla in misura considerevole la costruzione di consumatori che tendano a differenziarsi sempre più, l’‘invenzione’ di ‘tradizioni dei consumatori’. In parole povere: la diversità si vende bene”. Tutto ciò appare valido ancora oggi. Il principio della diversità consente a ciascuno di preservare la propria cultura, mantenendo salde le proprie radici. Inoltre, solo tenendo presente l’importanza del radicamento in un luogo ci si può definire cosmopoliti. Robertson considerava la globalizzazione non esclusivamente come una minaccia al locale, ma piuttosto come il motore che per certi versi ha comportato il recupero di “patria” e “luogo”: tutto ciò lo ha espresso con il termine glocale.

Il museo come spazio del mondo

In cosa si traduce tutto questo nel mondo museale? Al giorno d’oggi la consapevolezza o la prospettiva “glocale” è essenziale per qualsiasi spazio espositivo, poiché il museo è una sorta di spazio del mondo in cui globale e locale si intrecciano in maniera duplice: da una parte in relazione agli oggetti esposti, alle collezioni, agli archivi e alle narrazioni a essi collegati; dall’altra in relazione alla provenienza del pubblico e a questioni relative alla comunicazione. Così in un museo cittadino gli alunni di una scuola vicina possono imbattersi in un manufatto della storia globale o nell’opera di un artista di fama internazionale, mentre in un altro museo sperduto in una valle montana una visitatrice proveniente dall’Asia può venire in contatto con l’artigianato tradizionale del luogo.

Una prospettiva “glocale” implica anche uno sguardo (auto)critico su questi contesti diversi; una consapevolezza della prospettiva da cui osserviamo le cose, e dei miti collegati – magari in modo inconscio – a un oggetto o a un archivio. Inoltre, la questione della fruizione di una determinata mostra da parte di un certo tipo di pubblico potrebbe sfociare in una riflessione sul proprio ruolo intrecciandosi con considerazioni relative alla collocazione del museo nei processi di globalizzazione e non ultimo di decolonizzazione. Ciò riguarderebbe anche la gestione di collezioni, archivi e manifestazioni, nonché questioni strutturali come la politica culturale e quella delle risorse umane. Su che cosa si fondano e a chi dovrebbero essere rivolte? E chi decide su temi, realizzazioni e finanziamenti? Come ha detto in maniera così efficace Jacqueline Strauss in apertura del congresso: riflettendo sul termine “glocale” emergono un bel po’ di sorprese!

Autore : Katharina Flieger, redattrice, Rivista svizzera dei musei

Lo Scrittore e la Valle

Diana Tenconi e Regina Bucher si confrontano sulle sfide legate alla conduzione di un museo.

Non potrebbero essere più diversi, in tutti i sensi, il Museo Hermann Hesse di Montagnola e il Museo di Leventina di Giornico. Se il primo si trova in una torre di origine medioevale nel cuore di un vecchio nucleo ticinese, in un ambiente quasi mediterraneo fatto di palme e platani e giornate assolate, del tutto diverso è il contesto del secondo. Per accedervi bisogna imboccare una valle a tratti ostica che, oltre a testimoniare lo sforzo degli antenati per la sopravvivenza, grazie alla sua posizione strategica è stata protagonista della grande storia.

Dietro a queste due piccole ma preziose strutture museali (nel 2018 l’Osservatorio culturale del Cantone Ticino ne ha censite oltre 80 su un territorio di 350 000 abitanti) troviamo due donne, che abbiamo invitato a sedersi allo stesso tavolo per discutere delle sfide di una professione che, prima di tutto, è una passione. A metà strada tra Giornico e Montagnola, incontriamo Diana Tenconi, curatrice del Museo di Leventina, e Regina Bucher, direttrice del Museo Hermann Hesse.

Come sono nati i vostri musei?

Regina Bucher: Il Museo Hesse nacque per la prima volta nel 1997 come associazione, per volontà di alcune persone e del figlio di Hermann Hesse, Heiner. L’esperimento non riuscì per motivi economici. Dal 2000 una fondazione gestisce il museo su una base più solida, e così abbiamo potuto iniziare a lavorare seriamente.

Diana Tenconi: Il Museo di Leventina è nato nel 1966 su iniziativa di Diego Peduzzi e ha la sede fissa in Casa Stanga dal 1972. Da lì è stata fondata un’associazione, tuttora esistente, che si occupa anche della raccolta di fondi e della gestione del museo. Nel 1990, con la legge sui musei etnografici regionali, il nostro museo è entrato a fare parte della rete etnografica del Cantone. In Ticino vi sono in tutto undici musei parzialmente finanziati dal Cantone tramite un contratto quadriennale gestito dal Centro di dialettologia ed etnografia. Quest’ultimo controlla anche l’attività dei musei, garantendone la qualità, oltre ad offrire diversi servizi.

Diana Tenconi e Regina Bucher sono due donne molto diverse: riflessiva e discreta la prima, vulcanica e quasi mediterranea la seconda. Pur vedendosi per la prima volta, le due direttrici riconoscono in questo incontro un’occasione di scambio e di confronto. Regina Bucher si rivolge direttamente a Diana Tenconi,

RB: Voi siete proprietari del museo?

DT: Sì, nel 2014 abbiamo proceduto a un’importante ristrutturazione che ci ha permesso di collegare Casa Stanga a un edificio adiacente, estendendo così gli spazi.

RB: Torre Camuzzi, invece, è di proprietà privata e paghiamo l’affitto. Questo comporta un onere finanziario e ci impedisce di fare dei cambiamenti strutturali. I finanziamenti sono un leitmotiv quando si parla di politiche museali. Come gestite questo problema?

RB: Siamo una fondazione privata e da quindici anni riceviamo dal Cantone un sostegno ai singoli progetti. Con il tempo inevitabilmente vi sono stati dei tagli e ciò ci ha costretti a incrementare gli sponsor privati.

DT: Il Cantone versa un contributo per il finanziamento del mio impiego (al 60%) e di quello della mia segretaria (50%). Per le mostre ci affidiamo alle sponsorizzazioni.

RB: È bello che il Cantone copra una parte dei vostri costi del personale. È difficile trovare uno sponsor che partecipi ai costi di gestione. Negli ultimi vent’anni abbiamo fatto di tutto per incrementare le entrate, dalla ricerca di sponsor alla cura del nostro bookshop, ma nonostante una media di 13 000 visitatori all’anno abbiamo dovuto intaccare il capitale.

DT: È impossibile farcela solo con i visitatori... noi ne abbiamo circa 3000 all’anno. Trovo ammirevole che riusciate a raccogliere fondi grazie alle vostre iniziative. RB: Siamo reduci da un periodo difficile; in passato avevamo trovato tredici persone che si erano impegnate a sostenerci con un determinato importo per tre anni: si chiamavano «Il cerchio dei giocatori delle perle di vetro» (dal noto romanzo di Hesse, NdR). Come ringraziamento hanno ricevuto un’opera di Mario Botta. Al termine dei tre anni è intervenuto il Comune di Collina d’Oro, grazie al quale fino al 2021 dovremmo stare più tranquilli...

DT: Anche i Comuni della Leventina dal 2014 fanno un versamento per ogni abitante.

Cosa trova il visitatore nei vostri musei?

DT: Dopo la ristrutturazione abbiamo cambiato approccio: se prima era storico, legato alla vita contadina, ora è antropologico. Il fil rouge della mostra permanente è l’identità. Abbiamo una sezione dedicata all’identità personale, una all’identità collettiva e una alla storia di questa valle, dove dall’agropastorizia si è passati allo sfruttamento delle risorse e all’industria, senza dimenticare il turismo.

RB: Noi ci dedichiamo a colui che ancora oggi è lo scrittore di lingua tedesca del ‘900 più letto al mondo. La sala principale è dedicata ai 43 anni trascorsi da Hesse in Ticino: vi sono esposti molti oggetti personali di Hesse che ho faticato a trovare, come gli occhiali o la borsa da viaggio. Ma anche lettere e fotografie, oltre ai suoi bellissimi acquarelli. Cerchiamo di limitare i testi didascalici, perché il nostro museo mira soprattutto a ricreare la profonda spiritualità di Hesse. Due volte all’anno organizziamo delle mostre temporanee.

Qual è il rapporto del museo con la popolazione?

RB: All’inizio c’era un po’ di diffidenza, ma ora il rapporto è buono, anche perché proponiamo molti eventi in lingua italiana. Nel mese di maggio abbiamo festeggiato i 100 anni dall’arrivo di Hesse a Montagnola e la popolazione ha partecipato con entusiasmo.

DT: Per noi il contatto con la popolazione è importante: per questo usciamo sul territorio con conferenze o escursioni, avvalendoci di guide esperte come Orazio Martinetti, Guido Pedrojetta e Fabrizio Viscontini. Il legame con il territorio ci permette anche di potere contare sul volontariato da parte della popolazione.

Cosa possono trovare i visitatori nei dintorni dei vostri musei?

RB: Anzitutto, oltre al museo offriamo un bellissimo giardino in cui vive la nostra tartaruga e un caffè letterario; se si vogliono esplorare i dintorni, si possono fare diverse passeggiate a tema con un’apposita audioguida. Ci siamo inoltre organizzati con le nostre guide per accompagnare i visitatori a Carona, al LAC di Lugano o al Monte Verità. Sviluppiamo dei programmi ad hoc.

DT: Noi consigliamo di scoprire la Leventina nel suo aspetto più naturalistico, con le passeggiate in Piora, sul Tremorgio o sul San Gottardo. Anche sul territorio di Giornico vi sono numerosi monumenti degni di una visita: dalla chiesa romanica di San Nicolao al Museo La Congiunta, un edificio in calcestruzzo costruito da Peter Märkli per ospitare le opere dello scultore Hans Josephsohn. Abbiamo anche due ponti a schiena d’asino e l’unica isola abitata sul fiume Ticino. Questo luogo è considerato importante dal punto di vista energetico.

Il museo diventa quindi un punto di partenza...

RB: Oggi il museo deve offrire più della semplice mostra: il nostro futuro è quello di andare incontro ai bisogni del turista.

DT: È vero, i musei diventano un punto di informazione sul territorio: a volte consigliamo addirittura dove andare a pranzo!

RB: Dobbiamo lavorare sulla fidelizzazione. Al Museo Hesse circa il 20% dei visitatori ritorna per una nuova visita. L’atmosfera è piacevole e rilassante.

DT: È un aspetto importantissimo, l’ambiente e l’accoglienza sono fondamentali. Regina Bucher e Diana Tenconi si salutano: la prima ritorna verso sud, la seconda verso nord, ma l’impressione è che si vedranno ancora…

Prangins-Dakar: uno scambio vincente

Intervista da Laure Eynard sul viaggio di studio organizzato da ICOM Svizzera, ICOM Senegal, ICOM Internazionale e Château de Prangins.

Sulla terrazza del castello di Prangins, incontriamo Mohamadou Moustapha Dieye, archeologo e titolare di un master in gestione del patrimonio. Questo giovane senegalese di 31 anni, specializzato in conservazione preventiva, lavora al Musée Théodore Monod di arte africana di Dakar. Selezionato per un soggiorno di studi di due settimane in Svizzera – progetto pilota lanciato dal Consiglio internazionale dei musei (ICOM) e dalla sua sede elvetica –, ci racconta le sue impressioni.

Durante il suo soggiorno ha potuto farsi un’idea del mondo museale svizzero e ha incontrato numerosi professionisti del settore. Quali sono le tecniche e/o competenze che l’hanno più colpita?

Mi hanno colpito le tecniche di conservazione adottate al Centre des collections del Musée national suisse, ad Affoltern am Albis. Bernard Schüle mi ha fatto vedere come sono conservate le uniformi e le bandiere nel Compactus. In Senegal abbiamo dei contenitori metallici poco adatti. Gli archivi, a Dakar, versano in uno stato critico, perché non ci sono restauratori né attrezzatura adeguati per la conservazione preventiva. Ho conosciuto anche Elke Mürau, che mi ha mostrato il restauro dei tessuti, la loro manipolazione, e il modo di installare le stoffe in vista della loro valorizzazione in un contesto espositivo.

Quale sarà il suo contributo alla mostra permanente sui tessuti indiani prevista per il 2020 al Castello di Prangins?

Porterò la mia esperienza nella parte dedicata all’Africa, in particolare a Gorée, in Senegal, fulcro del commercio triangolare dal Cinquecento al Settecento, in cui gli indiennes sono serviti da moneta di scambio contro gli schiavi. Prima di questo soggiorno in Svizzera, ho messo a disposizione della direttrice Helen Bieri Thomson un’importante documentazione e la banca dati della collezione tessile del Musée Théodore Monod, digitalizzata nel 2018. Abbiamo così potuto approfondire lo studio e la comprensione di alcuni oggetti della collezione del Prangins. Diciamo che in questo modo porto un altro punto di vista sul soggetto. Inoltre, i professionisti che ho incontrato non sono mai stati in Africa. Per me è anche l’occasione di parlare loro della politica museale e dell’universo dei musei africani.

Che cosa ha tratto da questa immersione nel mondo museale svizzero?

Ho apprezzato gli allestimenti adattati alle esigenze del pubblico e l’utilizzo delle audioguide e delle nuove tecnologie per la mediazione culturale. Al mio ritorno a Dakar, mi piacerebbe introdurre questi strumenti, oltre all’applicazione MuseumPlus per facilitare la gestione delle opere e rendere più efficace il nostro lavoro di ricerca e documentazione. In occasione della visita della segretariata dell’ICOM Suisse e dell’AMS, ho ricevuto tutte le semplici e pratiche pubblicazioni che sono state redatte dall’associazione e destinate alle figure che lavorano nei musei. Sono venuto con una valigia, riparto con una seconda valigia piena di documenti sui musei svizzeri.

Il mondo museale africano è in piena effervescenza dopo l’inaugurazione nel 2017 del Musée Zeitz d’art contemporain a Città del capo e a fine 2018 del Musée des civilisations noires a Dakar. Nel 2020, è prevista l’apertura di quattro musei nel Benin. Cosa ne pensa?

I musei in Africa risalivano all’epoca coloniale ed erano ospitati da vecchi edifici amministrativi o residenze poco adatte alla conservazione delle collezioni. Anche il contesto attuale di restituzione del patrimonio culturale africano svolge un ruolo in questa effervescenza. In Africa Occidentale, la gente non fa che parlarne dopo il discorso del presidente francese in Burkina Faso, nel novembre 2017, e le conclusioni del rapporto Savoy-Sarr sul tema, rese pubbliche l’anno seguente. La popolazione si sente coinvolta, vengono organizzati dibattiti sul tema da giornalisti e università. La maggioranza degli africani vuole che la Francia restituisca questo patrimonio in modo che possa essere trasmesso alle generazioni future e che i giovani possano beneficiare degli scambi con i musei internazionali per approfondire le loro competenze nella conservazione di questi oggetti artistici.

Uno sguardo nuovo sulla storia e l'arte africane

Inaugurato quest’anno, il Musée des civilisations noires si propone di dare una dimora al patrimonio delle culture nere di tutto il mondo. La scrittrice keniana Ciku Kimeria lo ha visitato e ha parlato con il direttore Hamady Bocoum.

L’apertura del Musée des civilisations n oires (Museo delle civiltà nere) a Dakar non avrebbe potuto capitare in un momento migliore. L’idea risale agli anni Sessanta e si deve al primo presidente del Senegal Léopold Sédar Senghor, ma l’attuazione si è protratta fino alla fine dello scorso anno. L’inaugurazione del museo ha coinciso con la pubblicazione del rivoluzionario studio curato dall’economista senegalese Felwine Sarr e dalla storica dell’arte francese Bénédicte Savoy, che sollecitano la restituzione dei tesori d’arte saccheggiati in Africa. Al momento più di 90.000 oggetti d’arte africana si trovano nei musei francesi, e altre migliaia sono sparse nei musei di tutta Europa. Il dibattito intorno alla questione se i beni culturali africani saccheggiati debbano essere restituiti, e se l’Africa abbia i mezzi e l’interesse per tutelarli, è aperto.

Sull’argomento il direttore del museo Hamady Bocoum si è così espresso: “La restituzione all’Africa dei tesori d’arte sottratti non deve dipendere dalla domanda se abbiamo lo spazio per esporli, chi ha rubato i nostri tesori non può venire a dirci come dobbiamo trattarli. Se una città volesse restituire i suoi tesori alle foreste sacre dalle quali sono stati rubati, anche questo sarebbe nel suo buon diritto”. Tale posizione dà voce ai forti sentimenti anticoloniali che rispecchiano gli ideali del museo.

La struttura e l’opportunità della scelta di Dakar come sede

L’enorme complesso, con una superficie di 14.000 metri quadrati distribuiti su quattro piani, si ispira dal punto di vista architettonico alle capanne rotonde della zona della Casamance, nel sud del Senegal, e di Grande Zimbabwe. La prima immagine che si presenta al visitatore è quella del gigantesco baobab al centro del museo, opera dello scultore haitiano Edouard Duval-Carrié. L’“albero della vita” è molto amato, e in Senegal ha un profondo significato culturale, spirituale e storico. Alcuni di questi alberi hanno dai 1.000 ai 2.500 anni d’età, e trovano più di trecento diversi usi.

Il museo si è posto l’obiettivo di rappresentare tutte le civiltà nere, ma la scelta di costruirlo a Dakar non è stata casuale. In questa città l’arte vive e respira. Il padre fondatore del paese, e anche padre spirituale di questo imponente museo, Léopold Sédar Senghor, era un poeta, teorico della cultura ed esponente di punta del pensiero panafricano.

Parlando del concetto ispiratore del museo, Bocoum sottolinea più volte quanto sia importante evitare una prospettiva occidentale: “Sin dall’inizio abbiamo concordato che non avrebbe dovuto diventare un museo di etnologia. Per noi l’etnologia è più la visione delle donne e degli uomini africani attraverso la lente dell’Occidente – del genere ‘I Masai sono un popolo nomade’, ‘Gli Hausa sono...’ – che non la nostra visione di noi stessi. Il secondo punto su cui eravamo d’accordo è stato quello di evitare di creare un museo antropologico. Per noi questo era importante perché l’antropologia è stata usata per razionalizzare il concetto di “razza”, che ha avuto effetti devastanti su quelli che erano fuori delle strutture di potere, specialmente i cosiddetti people of color. L’antropologia ha reso possibile la legittimazione della riduzione in schiavitù dei neri. Come terza cosa, non volevamo che fosse un museo subalterno”.

Gayatri Chakravorty Spivak, filosofa, studiosa di letteratura e teorica femminista indiana, descrive così il subalterno nell’ambito degli studi postcoloniali: “Gli intellettuali occidentali esiliano le altre forme non occidentali (africane, asiatiche, mediorientali) di conoscenza, di appropriazione della conoscenza del mondo, ai margini del discorso intellettuale, reinterpretandole come mito e folclore. Per poter essere udito e conosciuto, il subalterno deve adottare la via occidentale della conoscenza, del pensiero, del ragionamento e del linguaggio”.

La rappresentatività del museo per le diverse culture nere

Ascoltando Bocoum, è difficile non riflettere sulle conseguenze nefaste della rappresentazione dominante dei neri e della loro cultura, con la quale le persone di colore si devono confrontare in tutto il mondo. Nel suo libro Le mie stelle nere da Lucy a Barack Obama, l’ex calciatore professionista guadalupense Lilian Thuram scrive che l’unica cosa della cultura africana che ha studiato alla scuola francese è stata il commercio transatlantico di schiavi. Denuncia che, imparando della loro storia solo questo aspetto, i bambini neri si sentiranno naturalmente inferiori. Per questo ha scritto il libro: perché i bambini neri possano avere delle eroine e degli eroi neri che li accompagnino e li ispirino negli anni, perché sappiano che la loro storia ha da offrire di più, oltre alle ingiustizie contro di loro e i loro antenati.

Il museo si è posto l’obiettivo di offrire una sede all’eredità delle culture nere di tutto il mondo, scegliendo un approccio globale alla cultura nera. Vi si trova una galleria di maschere di vari paesi ed etnie d’Africa. Una sezione è incentrata sul contributo dell’Africa alla medicina, alla matematica e all’architettura; in questo ambito è ovviamente impossibile tralasciare il lavoro di Cheikh Anta Diop, lo storico, antropologo e fisico senegalese che ha studiato le origini della specie umana e la cultura africana precoloniale. Diop è stato il primo a parlare delle radici africane dell’Homo Sapiens: un’idea che a suo tempo fu molto controversa ma che oggi è universalmente accettata. Un’altra sezione è dedicata alle donne africane e di origine africana che hanno dato un contributo al mondo, e celebra Winnie Madikizela Mandela, Harriet Tubman, Wangari Maathai, Angela Davis, Sojourner Truth e molte altre.

La sezione su negritudine, consapevolezza nera e paesi panafricani rende omaggio a molte grandi figure, da Martin Luther King a Frederick Douglas, da Thomas Sankara a Malcolm X e altri. La sezione dedicata all’arte contemporanea accoglie una collezione notevole, che comprende le fotografie di Malaïka Dotou Sankofa, un androgino angelo africano di Laeïla Adjovi, artista franco-beninese vincitrice del premio d’arte della Biennale di Dakar del 2018, i ritratti di Malick Sidibe, icona della fotografia maliana, e un’installazione dell’artista haitiano Philippe Dodard, che rappresenta in diverse tappe l’evoluzione della schiavitù, dall’Africa alle piantagioni caribiche passando per il cosiddetto “Middle Passage”.

La ricezione del museo

Bocoum ricorda ancora una volta che l’obiettivo del museo è quello di presentare continuativamente diverse culture nere, e aggiunge: “Sin dall’inizio abbiamo collaborato con artisti e curatori di diverse parti della diaspora nera, da Cuba agli Stati Uniti e al Brasile. Le mostre proposte dal museo cambieranno ogni sei mesi; la sezione sulla culla dell’umanità è una delle poche esposizioni permanenti. Le altre esposizioni, compresa quella di arte contemporanea, vengono aggiornate costantemente con nuovi temi e oggetti, riprendendo contenuti della diaspora nera. Questo non è un museo della civiltà senegalese o africana: è e resta il museo delle civiltà nere”.

A un mese dall’inaugurazione, il museo attirava già una media di 500-600 visitatori e visitatrici al giorno. Partito con 700 oggetti in mostra, dopo un mese ne possedeva già 1.300 e conta di arrivare a 4.000-5.000 per la fine del 2019. Possono trovare posto nel museo fino a 18.000 oggetti. La mostra inaugurale era suddivisa in quattro sezioni: la culla dell’umanità (con crani e altri reperti ossei scoperti in diverse parti del continente), civiltà africane continentali (sulla storia delle maschere e le ripercussioni del sufismo e del cristianesimo in Africa), la globalizzazione dell’Africa (sulle idee dei movimenti della negritudine, del panafricanismo e della consapevolezza nera) e Africa oggi (opere di artisti contemporanei di origine africana, americana e caribica).

Se si pensa che il continente africano è la culla di tutte le civiltà, in questo museo si trova qualcosa per tutti. Ai figli e alle figlie del continente, in qualunque parte della terra si trovino, questo museo offre un’esperienza di trasformazione. Permette loro di vedere se stessi e la propria cultura rappresentati in una prospettiva che dà loro il giusto valore – in più, su suolo africano. Già questo è un motivo sufficiente per festeggiare.

Autore: Ciku Kimeria, scrittrice keniana («Of goats and poisoned oranges»), communication consultant, avventuriera e blogger

Il messagio sulla cultura 2021-2024. Un messaggio per tutti?

Che cosa contiene il messaggio sulla cultura 2021-2024? In che modo riguarda le istituzioni medie e piccole, e cosa possono fare queste ultime contro il “divario digitale” che le separa dalle realtà più grandi? Un colloquio con Stefan Zollinger sulla dichiarazione dell’AMS riguardo la procedura di consultazione sull’attuale Messaggio sulla cultura.

Una complessa regolamentazione garantisce la promozione, la conservazione e il finanziamento delle istituzioni culturali svizzere. Il messaggio sulla cultura rientra in questo ambito normativo. Dopo la Legge federale sulla promozione della cultura (dicembre 2009), ogni quattro anni la Confederazione emette questo documento che stabilisce la forma in cui l’Ufficio federale della cultura (UFC) promuoverà l’ampio panorama culturale nazionale. La posizione della Confederazione è chiaramente definita: nella formulazione della loro politica culturale, cantoni, comuni e città mantengono la loro autonomia nei confronti della Confederazione, che pertanto non è responsabile in prima istanza della promozione o della gestione di collezioni e musei, pubblici o privati che siano. Sono escluse quattro istituzioni interamente finanziate, che si sono unite in una entità giuridica a sé sotto il tetto comune del Museo nazionale svizzero. L’UFC gestisce anche altri musei e raccolte d’arte federali. In ogni caso, l’articolo 10 della menzionata legge federale sulla promozione della cultura dà all’UFC la facoltà di sostenere finanziariamente musei, collezioni e reti di terzi. Tra queste ultime rientrano l’Associazione dei musei svizzeri (AMS), la Fondazione Passaporto musei svizzeri e Memoriav, l’associazione per la conservazione del patrimonio culturale audiovisivo svizzero.

Mostre sempre più grandi

Il messaggio sulla cultura converte la legge in azioni pratiche, e stabilisce quali istituzioni per la conservazione del patrimonio culturale debbano ricevere aiuti finanziari per le spese assicurative, di esercizio o di progetto nei corrispondenti periodi di sostegno. I grandi progetti espositivi di richiamo internazionale possono ottenere contributi ai premi di assicurazione per il prestito di opere di pregio. Si garantisce così la possibilità di tenere in considerazione il desiderio del pubblico di mostre di richiamo internazionale anche se i premi assicurativi, in costante aumento, assorbono una parte sempre più consistente del budget. Per richiamare l’attenzione su tale evoluzione, AMS e ICOM Svizzera hanno formulato una dichiarazione congiunta sulla bozza del messaggio sulla cultura 2021-2024, in cui, tra le altre cose, si sollecita un aumento dei contributi per i premi di assicurazione.

Un’altra parte considerevole degli adempimenti confederali è costituita dagli aiuti finanziari per le spese di esercizio. Dall’ultimo messaggio, le istituzioni che ricevono questo tipo di contributo devono presentare richiesta di proseguimento del finanziamento, e la procedura di attribuzione si basa su una serie di criteri elaborati dall’UFC. Per i musei cambierà poco – e questo è valutato positivamente. Così si esprime Stefan Zollinger: “Riteniamo importante che gli aiuti per le spese di esercizio continuino a essere erogati e che il sistema di attribuzione rimanga lo stesso. Ci sono musei che dipendono da questi aiuti, e sono proprio i più grandi”. Ma la riflessione dell’Associazione va oltre: “Siamo dell’idea che quattro anni per gli aiuti alle spese di esercizio di un museo siano un periodo relativamente breve. Sarebbe più utile un’assegnazione a più lungo termine”. Concretamente, l’AMS propone nella sua dichiarazione una durata di otto anni invece che di quattro.

Sarà mantenuta anche la centralità della promozione della ricerca sulle provenienze espressa nel precedente messaggio sulla cultura; la Confederazione continuerà a erogare contributi a progetti di ricerca in questo ambito. Nel 2018 dodici musei hanno potuto acquisire fondi di progetto per dedicarsi alla ricerca approfondita su opere d’arte che si sospetta provenienti da trafugamenti nazisti: il Kunstmuseum Basel, ad esempio, ha potuto indagare sull’acquisizione di duecento disegni appartenenti alla collezione dal 1933.

Il divario digitale

Alla domanda se sarebbe possibile anche per altre istituzioni accedere direttamente ai contributi confederali per le spese di esercizio o di progetto, Stefan Zollinger conferma l’attuale politica culturale della Confederazione: “È opportuno che la Confederazione sostenga con contributi all’esercizio grandi istituzioni di interesse nazionale, piuttosto che finanziare in via sussidiaria il maggior numero possibile di piccoli musei – compito, quest’ultimo, che spetta ai cantoni e ai comuni”. Per Zollinger, l’AMS e altre reti di terzi avranno un ruolo sempre più importante nel gettare un ponte tra istituzioni grandi e piccole e incoraggiare così lo scambio di conoscenze. Nella dichiarazione si parla di un “divario digitale” che diventa sempre più evidente. Spiega Zollinger: “Sarebbe opportuno, dopo la ricerca sulla provenienza, affrontare il tema della digitalizzazione con contributi a progetti. È un tema che sarà di stimolo per tutti i musei, anche i piccoli. E non solo per i musei, ma per tutta la società”. Inoltre, l’Associazione si sente in obbligo e in grado di sviluppare un progetto di digitalizzazione che aiuti i suoi numerosi membri nel campo della catalogazione, della mediazione e dell’amministrazione.

Già oggi musei e collezioni possono usufruire dei servizi dell’AMS o di Memoriav e con essi, indirettamente, del sostegno della Confederazione. Il museo di Bellpark, ad esempio, ha avviato un programma di conservazione e catalogazione con il sostegno di Memoriav: sono state recuperate 3.000 lastre di Emil Kreis (1869-1929), il primo fotografo di Kriens, rendendo accessibile al grande pubblico l’archivio di uno dei più importanti fotografi industriali della regione di Lucerna degli anni intorno al 1900. Così, con la collaborazione di Memoriav, un’istituzione relativamente piccola ha dato un grande contributo alla conservazione del patrimonio audiovisivo svizzero e ha realizzato un progetto che segna un importante precedente.

Il messaggio dietro il Messaggio sulla cultura

Con circa 770 associati, l’AMS rappresenta quasi tre quarti delle realtà museali svizzere. Affinché la dichiarazione rispecchiasse una visione il più possibile completa, AMS e ICOM hanno interpellato i propri membri e integrato tutte loro osservazioni. Stefan Zollinger commenta così il sondaggio condotto tra gli associati “Nella nostra dichiarazione anche i piccoli musei hanno potuto esprimersi. In tal modo partecipano alla politica culturale nazionale, e l’AMS fa sentire la loro voce”. L’indagine è anche un esempio di come le reti di terzi possano far sentire la loro presenza. Proprio nella convergenza di istituzioni piccole e medie e nella partecipazione alle associazioni Zollinger vede una strategia efficace per il futuro. In ogni caso, con il nuovo messaggio sulla cultura potremmo andare incontro a un cambiamento: “L’attuale bozza del messaggio prevede di incoraggiare altre reti di terzi ma non di aumentare le voci di bilancio complessive. Se il messaggio venisse recepito in questa forma, le reti già esistenti, AMS tra queste, avrebbero a disposizione meno mezzi”, è la critica che Stefan Zollinger muove al paragrafo del Messaggio sulla cultura che definisce i contributi all’esercizio a reti di terzi.

Zollinger fa un’ulteriore osservazione: “Poiché, per via della sovranità culturale dei cantoni, non esiste una politica culturale nazionale, il messaggio sulla cultura si è decisamente trasformato in una sorta di modello”. Soprattutto gli assi d’azione “partecipazione culturale”, “coesione sociale” e “creazione e innovazione”, formulati a partire dal secondo messaggio sulla cultura, sono considerati affidabili strumenti di orientamento per gli operatori della cultura. In considerazione di ciò, e anche per motivi ideali, AMS e ICOM sono più che favorevoli a una valorizzazione ancora maggiore, nel messaggio sulla cultura, dell’importanza dei musei e soprattutto dei loro operatori. È dunque necessario dare il giusto riconoscimento al loro lavoro di mediazione e di ricerca e, soprattutto di partecipazione culturale.

Autore: Silvia Posavec, Studentessa in pubblicistica culturale (ZHdK/Academia delle arti di Zurigo) e giornalista pubblicista.

Cronaca 2019

La cronaca offre una panoramica completa e variegata dei nuovi sviluppi e dei cambiamenti nel panorama museale svizzero.

Dall’ultima cronaca sono successe parecchie cose. Cominciamo con una panoramica delle tante celebrazioni: anniversari, premi e riconoscimenti vari. Nel 2019 il Liechtensteinische Landesmuseum ha celebrato il tricentenario del principato con la mostra 1719 – 300 Jahre Fürstentum Liechtenstein. Compie la metà di quegli anni il Wildnispark Zürich Langenberg, la prima riserva naturale della Svizzera, inaugurata l’11 dicembre 1869. Il 2018 è stato un anno speciale per il Museum der Kulturen Basel, che ha festeggiato i suoi centoventicinque anni coinvolgendo la cittadinanza nell’allestimento di una mostra: circa duecento persone hanno potuto selezionare gli oggetti custoditi nei depositi, che normalmente sono chiusi al pubblico. I 125 oggetti preferiti, scelti con una votazione online, sono stati esposti nella mostra Wünsch dir was (“Esprimi un desiderio”). Nel 2019 il Bündner Kunstmuseum di Coira ha compiuto cento anni, mentre il Kunstmuseum Luzern ha celebrato il bicentenario con la mostra più importante della sua storia: Turner. Das Meer und die Alpen (“Turner. Il lago e le Alpi”). La passione dell’artista per la Svizzera centrale era pari al suo desiderio di viaggiare; a seguire le sue tracce c’è anche il nuovo formato di comunicazione online turner2019.ch. Anniversari più giovani al Museum Aargau: il decennale del programma di volontariato è stato celebrato con una festa al Castello di Hallwyl, che ha visto la partecipazione di cento volontari. Ha compiuto dieci anni anche il Legionärspfad Vindonissa, festeggiati con un banchetto romano. Il Kunsthaus Grenchen ha dedicato una cerimonia all’inaugurazione del grande ampliamento della ottocentesca Villa Girard.

Il Forum Würth Rorschach, che ha aperto i battenti nel 2013, presenta in mostre temporanee opere di arte moderna e contemporanea della ricca collezione Würth: a soli cinque anni dall’inaugurazione, ha già accolto 300'000 visitatori. Nel 2018 anche il Kunsthaus Zug ha segnato un record di presenze, con più di 20.000 visitatori che sono andati a vedere le sue mostre. Sempre nel 2018, con circa 14.000 visitatrici e visitatori, per la terza volta consecutiva il Museum Langmatt ha quasi raddoppiato il suo pubblico rispetto all’anno precedente. Nel 2019, con la mostra collettiva Konkrete Gegenwart (“Presente concreto”) il Museum Haus Konstruktiv ha toccato il record di ingressi e ottenuto risonanza mediatica. Record di presenze, con 104.703 visitatori, anche per il Museo della comunicazione di Berna: nel 2018, per la prima volta negli undici anni della sua storia, ha superato la soglia dei 100.000 ingressi in un anno solare. In più, nel 2019 è stato insignito di numerosi premi: a Strasburgo ha ricevuto il Premio museo del Consiglio d’Europa per il suo nuovo nucleo espositivo; la mostra Sounds of Silence ha ricevuto ad Amburgo l’International Sound Award nella categoria “Soundscapes and Ambient Sound”, e il manifesto della stessa mostra è stato inserito nella selezione “100 beste Plakate” (“100 migliori manifesti”) dell’anno 2019. L’Engadiner Museum è stato candidato al Premio museo europeo dell'anno, che è stato poi assegnato al Rijksmuseum Boerhaave di Leida (Paesi Bassi); per la sua candidatura, l’Engadiner Museum ha ricevuto un attestato. Un totale di 24 istituzioni hanno ricevuto il marchio "Kultur inklusiv", che indica un impegno all'inclusione (kultur.inklusiv.ch).

Vi sono stati molti rinnovamenti, ampliamenti e (ri)aperture. La casa madre del Museum für Gestaltung Zürich, costruita da Adolf Steger e Karl Egender negli anni trenta e sotto la tutela dei beni culturali, è stata restaurata e da marzo 2018 brilla di nuovo splendore; a maggio 2019 è stata poi affidata al Museo la cura scientifica e operativa del Padiglione Le Corbusier, nel quartiere Seefeld. A settembre 2018 il Museum Burghalde di Lenzburg ha festeggiato la riapertura dopo una ristrutturazione durata circa un anno e mezzo. L’edificio, che risale al 1628, è stato completamente rinnovato e adattato alle moderne esigenze; il museo ha guadagnato un nuovo spazio dedicato all’introduzione video e un laboratorio. Alla fine del 2018 ha riaperto i battenti il Postmuseum Liechtenstein (Museo postale), completamente rinnovato. Dal 2019, il pubblico del Zoologische Museum dell’Università di Zurigo troverà ad accoglierlo non più il bradipo gigante “Meggie”, ma un unicorno e un canino di narvalo; quest’ultimo è l’oggetto più antico acquisito dal museo, nel 1677. Nella primavera 2019 è stato riaperto il Museo Casorella, che presenta le mostre permanenti della città di Locarno. Ancora, è stata restaurata e ristrutturata la Mili Weber Haus a St. Moritz; vi verranno allestite due nuove sale dedicate alla sorella e ai fratelli dell’artista: la pittrice di fiori Anna Haller, l’architetto Emil Weber e lo scultore Otto Weber. Quanto al nuovo Muzeum Susch, se l’inaugurazione ha suscitato grande risonanza mediatica, la sua architettura e le sue mostre d’arte hanno entusiasmato. Dopo una pausa di sei mesi per ristrutturazione, alla fine di giugno 2019 ha riaperto con accesso ai disabili il Seemuseum Kreuzlingen; al termine di un lungo restauro, in agosto è stato riaperto anche l’atrio del Kunsthaus Zürich. Ai primi di ottobre è stato inaugurato a Losanna il quartiere dei musei Plateforme 10, che accoglierà il Musée cantonal des Beaux-arts (MCBA), il Musée de l’Elysée e il Musée de design et d'arts appliqués contemporains mudac.

Si registrano dei cambiamenti anche sul versante del personale. Da settembre 2017 il Zoologische Museum dell’Università di Zurigo ha una nuova direttrice, la biologa Isabel Klusman. A ottobre dello stesso anno, l’economista Sibylla Degiacomi ha assunto la direzione della Mili Weber Haus a St. Moritz. Nel 2018 la Militärhistorische Stiftung des Kantons Zug (MHSZ), Fondazione di storia militare del canton Zugo, ha assegnato tre nuovi incarichi: la presidenza a René Wicky, i rapporti con gli sponsor a Patrick Mollet e la comunicazione a Manuel Hunziker. Sempre dal 2018 la Zuger Kunstgesellschaft (Società d’arte di Zugo) ha un nuovo presidente: Richard T. Meier ha passato le consegne per limiti di età a Reto Fetz, membro di lunga data del consiglio direttivo ed economista; nel corso dell’assemblea generale 2019 è stato ampliato il consiglio direttivo, con la storica dell’arte e archeologa medievale Brigitte Moser, l’imprenditrice Silvia Graemiger e Thomas Stoltz, avvocato e notaio. Thomas Stoltz è inoltre il nuovo presidente della Stiftung der Freunde Kunsthaus Zug (Fondazione degli amici del Kunsthaus di Zugo). Da maggio 2019 la Stiftung zur Förderung des Verkehrshauses (Fondazione per la valorizzazione del Museo dei trasporti) ha un nuovo direttore nella persona di Peter Krummenacher. Si rinnova anche lo Strauhof: il condirettore Rémi Jaccard assume la direzione, con Philip Sippel come vicedirettore e Kathrin Egolf assistente curatoriale; l’attuale condirettrice Gesa Schneider passa al consiglio direttivo. Cambiamento al vertice anche per il Kunstmuseum Basel, che sarà diretto da un nuovo comitato, formato da cinque persone. La decisione è scaturita da una valutazione condotta nella primavera 2018. Il comitato è composto da un direttore e dai rappresentanti dei quattro settori operativi autonomi: Josef Helfenstein (direttore), Anita Haldemann (Arte e scienza), Werner Müller (Art Care), Matthias Schwarz (Finanze e operazioni) e Mirjam Baitsch (marketing e sviluppo). A novembre 2019 Annette Bhagwati assume la carica di direttrice del Museum Rietberg; il suo predecessore, Albert Lutz, va in pensione. Sempre all’inizio di novembre Marc-Olivier Wahler subentra a Jean-Yves Marin alla direzione del Musée d’art et d’histoire MAH de Genève. Anche il Musée d'art et d'histoire Fribourg MAHF annuncia un cambio alla direzione: ai primi di dicembre 2019 Verena Villiger Steinhauser, che ha diretto il museo dal 2009, passerà le consegne a Ivan Mariano. Oltre alla conservazione della collezione, lo storico vorrebbe promuovere il confronto tra arti e scienza, tra le generazioni e tra culture. Infine, da dicembre 2019 lo storico dell’arte Denis Decrausaz assumerà la direzione del Museum Murten (Museo di Morat).

Concludiamo con qualche notizia di trasporti... eccezionali e con uno sguardo al futuro. Nel marzo 2019 il Museo Svizzero dei Trasporti ha attirato una grande attenzione con lo spettacolare spostamento di un jet ambulanza della Rega, da Stansstad attraverso il Lago dei Quattro Cantoni; ora l’apparecchio fa parte dell’esposizione permanente Medizinische Hilfe aus der Luft (“Soccorso medico dal cielo”). Autogru e autoarticolati hanno trasportato alcuni armamenti teleguidati dell’epoca della guerra fredda, in prestito dalla Militärhistorische Stiftung des Kantons Zug (MHSZ), alle loro destinazioni: il Landesmuseum e il Museum Burg Zug. Guarda al futuro il Museum Langmatt, che negli anni 2017-2019, in collaborazione con la città di Baden e con Heller Enterprises, ha elaborato il progetto “Zukunft Langmatt” per definire la sostenibilità finanziaria della riqualificazione dell’edificio. In ultimo, a giugno 2019 l’associazione dei Musei Grigioni, insieme all’Associazione musei altoatesini, ha organizzato un convegno internazionale dal titolo Neue Gäste! Zaubermittel Tourismus, Jugend und Digitalisierung? (“Nuovi ospiti! Turismo, giovani e digitalizzazione: una formula magica?”), che si è tenuto a Scuol. Relatrici e relatori provenienti da Svizzera, Italia, Liechtenstein e Austria hanno riflettuto su come suscitare interesse, far superare al pubblico il timore di entrare in un museo e attirare nuovi visitatori.